Intervista a Giuseppe Grattacaso
Parliamo di noi
“Parlavano di me”, di Giuseppe Grattacaso: da racconto a spettacolo teatrale. Uno schizzo di genesi ed esegesi del progetto con l’autore del testo da cui è tratto lo spettacolo teatrale di Marco Zingaro con Francesca Nerozzi
Giuseppe Grattacaso ce l’ha nel DNA. Raccontare per lui è vitale. Docente di lettere per professione, autore di poesie per passione (le ultime raccolte, Confidenze da un luogo familiare e La vita dei bicchieri e delle stelle, le ha pubblicate nel 2010 e nel 2013), nel 2016 pubblica con la casa editrice Effigi Parlavano di me, la sua prima prova di narrativa. Una raccolta di nove racconti che fotografano altrettanti momenti di vita quotidiana. Il racconto che dà il titolo alla raccolta dà voce a una ragazza dalle gambe grosse che insegue il titolo di reginetta di bellezza e si racconta alla madre, cercando nel conforto della genitrice riparo dall’incerta, effimera, insincera approvazione altrui. Nel 2017, a Pistoia, diventa uno spettacolo teatrale. Dal 9 all’11 novembre sarà a Roma presso l’Altrove Teatro Studio.
Come nasce la raccolta Parlavano di me?
L’interesse per la narrativa è stato sempre grande, soprattutto per il racconto. Leggo di tutto, ma il piacere nel leggere i racconti è molto grande perché la forma racconto non lascia spazio a cose inutili. Bisogna essere concentrati, non bisogna dire niente di superfluo che non serva a creare la storia o il personaggio. Trovo estremamente interessante che si possa dire una vita o una situazione attraverso un elemento minimo, un evento particolare. Il racconto isola un frammento, una sezione di vita. Mi interessava raccontare in maniera semplice e diretta le vicende delle persone semplici, le persone che troviamo ogni giorno davanti a noi e che rappresentano uno spaccato della società in cui viviamo. Anche il titolo è legato a questo. No grandi personaggi che hanno segnato la storia ma la quotidianità. E comprendere che ciascuno di noi ha qualcosa di raccontare.
Quali sono stati i modelli?
Prevalentemente statunitensi. Ad esempio, amo visceralmente Raymond Carver [1938-1988, autore di short stories noto come l’iniziatore del minimalismo, ndr]. Sono un estimatore della prosa diretta, degli autori americani come degli italiani. Apprezzo l’arte del levare, quel modo di asciugare il linguaggio, in poesia e in narrativa. Il mio lavoro sui testi mira a renderli asciutti.
I suoi testi sono pensati pronti per l’uso teatrale?
Mi sono sempre interessato di teatro, per un periodo l’ho seguito come recensore. In particolare, mentre scrivevo “Parlavano di me” mi sono reso conto che stavo scrivendo un monologo. Forse non è nemmeno giusto definirlo così. Una giovane donna che partecipa a concorsi di bellezza e che parla a un altro personaggio, ovvero la madre, e che parla di vari personaggi entrando nelle parole degli altri. È un monologo animato. La matrice parlata è ciò che lo differenzia dagli altri racconti.
Ci descriva la protagonista di Parlavano di me.
Parla in maniera concitata, nervosa, agitata eppure ironica. Il suo è un linguaggio il più possibile giovanile, perché oggi i giovani parlano molto più velocemente. È il mondo che va più veloce. Il personaggio racchiude una sensibilità particolare e un’ansia di vivere che non va sempre nella direzione giusta. Il suo è un microcosmo, fatto di concorsi di bellezza e del rapporto con le altre donne e con gli uomini. Andando avanti si capisce che questo personaggio è sofferente. E non è solo per le gambe grasse di cui parla all’inizio: la sua sofferenza è legata al rapporto con se stessa e con gli altri. Si capisce che ha un disturbo alimentare.
Quanto ha influito l’esperienza di docente alle superiori nell’ideazione di Parlavano di me?
Nella scrittura di “Parlavano di me” la mia esperienza di insegnante a scuola è stata fondamentale, almeno per tre tematiche: il rapporto con il cibo e con la propria immagine, i rapporti familiari e sociali, il linguaggio. Mettere in scena qualcosa che riguardi l’oggi e i più sembra difficile. Il teatro italiano appare troppo spesso orientato su se stesso e a un ipotetico ritorno commerciale. Certe volte bisogna individuare tematiche che possano riguardare molti in maniera semplice. Non parto da un’idea morale, parto da una storia. Un frammento di un’esistenza, un momento significativo che rischiari di luce una vita interna. Non mi interessa distinguere tra bene e male, mi interessa raccontare un problema e un momento.
Qual è la situazione dei giovani oggi?
Vedo molta confusione. I ragazzi di oggi in un certo senso sono messi nelle condizioni di sapere di più, ma non sempre sono messi nelle condizioni di usare queste conoscenze nel modo migliore. Troppe sono le informazioni, meno gli strumenti. Sono ragazzi che hanno più bisogno rispetto alle generazioni precedenti di avere delle indicazioni per capire dove va il mondo. Da questo punto di vista le informazioni che hanno sono troppo semplici, si riducono a slogan e questo li rende più vulnerabili. Mi sembra che ci sia un’incapacità da parte delle generazioni precedenti di esprimere un’idea del mondo che possa rappresentare una guida. È esattamente quello che succede in politica. Si parla per slogan che servono ad alimentare il consenso, mentre i giovani hanno bisogno di alimentare la loro mente. Se non si ritorna a dare un significato alle parole, la scuola continuerà a fornire informazioni, quando la sua missione è consegnare contenuti perché le informazioni diventino alimento della mente.
Come nasce il progetto di portare a teatro Parlavano di me?
Nel momento in cui ho cominciato a pensare il racconto come un fatto teatrale, ho cominciato ad avere chiaro come doveva essere il personaggio e la sua presenza in scena. Ho pensato ad un’attrice che fosse molto fisica, capace di usare il corpo anche in maniera contraddittoria, che comunicasse qualcosa di diverso da quello che intanto diceva con le parole. Ho pensato a Francesca Nerozzi. Le è piaciuto subito l’idea di mettere in scena “Parlavano di me”. È stata lei a presentarmi Marco Zingaro [il regista, ndr]. Ne abbiamo parlato tutti e tre insieme, poi ho affidato loro il testo. Vidi lo spettacolo soltanto alle ultime prove: la sorpresa è stata grande. Avevano davvero usato il testo e tutto l’entusiasmo che avevano. Le linee della regia, gli elementi scenici e l’interpretazione rispondevano pienamente all’idea che c’era nel testo. Le scene proiettate, tratte dai disegni di Cristina Garduni, creano un’altra idea interpretativa. Il teatro funziona quando tutte le componenti convergono in un’unica direzione: Marco in questo è stato bravo. Affrontare una tematica attuale e impegnativa non in maniera scientifica o medica, bensì con un racconto. Metterlo in scena con le problematiche che questo può comportare, ma senza appesantirlo. Con l’empatia del teatro.