A proposito di “Novilunio”
Broggiato, la felicità da uno spioncino
Nella nuova raccolta dell’autore vicentino si confermano l'indubbia vocazione e la fede assoluta nella parola poetica. In ogni poesia c’è l’impronta della necessità e, insieme, la rivelazione di un filo nascosto, di un segreto da tracciare, l’affacciarsi di una verità impossibile. C’è una nuova consapevolezza…
Seguo da tempo il percorso poetico di Tiziano Broggiato e rilevo che nei recenti libri la sua scrittura sia andata sempre più affinandosi e arricchendosi, raggiungendo passo dopo passo una raffinata “solidità”. C’è, è evidente, una continua ricerca e un incessante impegno che accompagnano l’indubbia vocazione e la fede assoluta riguardo la parola poetica; il risultato infine è che Broggiato può essere oggi considerato una delle voci più interessanti della poesia nazionale (peraltro il poeta ha avuto anche riconoscimenti internazionali per due antologie, in francese e inglese, assai ben accolte all’estero). Ne è testimonianza il libro Novilunio, appena uscito dall’editore LietoColle, nella ormai prestigiosa collana pordenonelegge Gialla Oro, con la preziosa introduzione di Franco Cordelli, per l’occasione “tornato” alla poesia (vedi anche https://www.succedeoggi.it/wordpress2018/10/per-un-battito-dali-novilunio/, ndr). Ciò che viene da dire subito della raccolta, è il suo “passo” così felicemente composto, così controllato, così profondo. Nulla nel discorso di Broggiato è lasciato al caso, nulla è intrappolato in un superficiale agglomerato lirico, o compromesso in un uggioso manierismo ermetico o attraversato da una forzata musicalità. Siamo di fronte a una poesia scritta con l’indubbia urgente impronta della necessità e con abile e paziente artigianalità (e mi si permetta di dire con Eliot, che questa è l’arte magica del poeta).
Il poeta vicentino privilegia i temi privati, intimi, con ciò non si può però pensare che non veda i disastri del mondo o le difficoltà collettive, perché come ogni poesia che si inerpica nella profondità esistenziale, diviene riconoscibile scrittura universale. Vale a dire che quel disagio esistenziale si confronta nudo e totale al cospetto degli incroci decisivi della vita, fondamentali per il poeta, ma pure per qualsiasi persona che voglia situarsi sul fronte della domanda e dell’interrogazione: dall’età che incalza, alla sensazione minacciosa della fine di una comunità, dall’osservazione quasi maniacale del piccolo grande mondo circostante, alla rincorsa verso una difficile felicità, dalla “conta” degli affetti, alla ricerca di una spiritualità suprema, dalla lotta di molti per la sopravvivenza quotidiana, allo sguardo rivolto al volto di chi ci sta accanto.
Infine la “visita” alle città del mondo vissute come gocce di vita, per quanto non tutte realmente frequentate, ma pur presenti nel proprio immaginario, e riportate già in altri libri, essendo la dimensione “geografica”, la vita in atto o in desiderio, qualcosa che l’autore sente il bisogno di raccontare: Le Havre («Viste dall’alto le file simmetriche/ dei condomini appaiono come avvolte / dalla foschia»), Casablanca («C’è un latrare di cani di sottofondo/ e un respiro tellurico nell’aria/ mentre mi avvicino all’aeroporto/ di Casablanca»), Alcamo («Il fumo dei falò fluttua esitante/ sopra le statue del viale./ C’è una sorta di statica eclisse,/ di luce contratta sulle foglie degli alberi/ e sugli archi dell’ingresso»), la scozzese Portree («il gelo è vitreo/ e orizzontale si propaga/ l’eloquio gutturale del vento/ che dilania il molo»), Noto («Una luna diurna era apparsa dietro/ l’illesa Porta Romana, a Noto/ come un’epifania»), ecc.
Broggiato, in ogni poesia pare che debba rivelare un filo nascosto, o tracciare un segreto, o affacciarsi a una verità impossibile. Lo fa con un tratto leggero, da perfetto narratore di enigmi, di segreti, di crudeli rivelazioni, come un romanziere che segue varie tracce senza dare il filo della matassa al proprio lettore. La varietà dei temi trattati è sicuramente un di più che colpisce, non c’è un’ossessione, un argomento, che si ripete con puntuale scadenza, come accade a molti poeti, egli ci appare un poeta assai libero («Ho tutto il tempo per verificarne la consistenza,/ la stabilità dell’architettura,/ prima che qualcuno si faccia vivo/ per confidarmi la sua fondamentale/ verità».), che rifugge da sicuri riferimenti o da ideologie. Il suo è un viaggio verso un “indefinito altrove” seppure il poeta sappia che «la destinazione è fissata,/ così come la misura dell’ultraterrena indulgenza:/ davvero noi viviamo/ per dire sempre addio». C’è un lamento, certo, ma espresso in tono pacato, senza proclami particolari anche perché la tribuna a volte è vuota: «Anche stasera la mia pagina/ è una sala d’aspetto periferica:/ luci basse e nessuno in attesa». C’è una sottile angoscia dolce, una semplice tenerezza, una visione mai apodittica, o terrificante.
Mai il verso ci perviene con il tratto che schizza sangue o invade l’occhio. Ha un passo piano, perché non è necessario sconfinare nel gorgo più oscuro per dire verità sul mondo e sulla vita. Per quanto i colori non sempre siano quelli lucenti, e le ombre si affiancano a lontane immagini: «È dicembre e la sua luce cruda/ si sta lentamente ritirando dalla stanza/ senza rammarico./ In lontananza i due enormi fari/ che attraversano il bosco ancora innevato/ mi fanno pensare a un cocciuto treno siberiano/ che ha smarrito la rotta». Semmai il filo che ci pare di vedere è quello della malinconia, sottile filo, sottile amarezza che ci invade e si fa paludosa nebbia («Una nebbia densa e risoluta/ si avvicina alla mia finestra./ Tra poco nulla, all’esterno,/ sarà più visibile».), e questo diviene un panorama più grave del lutto.
C’è una storia, ci sono tante storie, ci sono tante vite, tanti nodi intricati, espressi in una prosaicità attenta e non debordante che rende la poesia meno oscura, ma posta pur sempre in un alveo sospeso. Non so se c’è, come richiama il titolo, una luna nuova, forse c’è una nuova consapevolezza poetica, con un respiro più sostenuto e un occhio che sa «penetrare» e sa descrivere meglio il proprio sentire e ciò che lo circonda. E ci sono nuovi interlocutori, altri poeti a cui guardare, sebbene Montale incalzi sempre come una grande ombra, come il grande padre, c’è Larkin (seppure si possa consigliare di non simpatizzare troppo per certi autori americani, inglesi o tedeschi, dove la prosaicità a volte fa soffrire la vena), coi suoi fantasmi: «Il vecchio di Larkin racconta storie/ che fatico a seguire./ Contrassegna e incide la cute/ con supponente perizia:/ i lembi sollevati scoprono/ un crudelissimo sfacelo/ di nervi e pensieri»; o altri poeti: «Dalla finestra aperta l’aria irrompe/ sul mio esercizio di versi a memoria: Sereni, Larkin, la Lipska…». Ma c’è anche Waterloo, c’è la battaglia e c’è una bellissima immagine, quasi vera, di Napoleone, ormai nel baratro, nel fango di una storia finita, quello, pare di capire, che il poeta pensi che capiti ai “vincenti”: «Gli olmi sentinella scrutano attoniti/ quell’estraneo impietrito ai loro piedi/…/ uno dopo l’altro ha visto crollare/ tutti i ponti dell’Ile fino alla settima generazione». E, a sorpresa, ci sono, come un gesto divino, le «dita ossute di Chack/ caracollano indolenti/ sui pistoni della tromba/ liberando brucianti note/ bianco sale».
E c’è la poesia dedicata al Collegio Xavier coi suoi tenebrosi predoni, con le sue ombre, con le sue anonime violenze, descritte senza urla, ma annotate in modo magistrale: «Pensavo, assolta l’incombenza,/ di rivelare la carcassa del predatore/ a tutti gli ignavi plaudenti del vaudeville locale»; c’è Marilyn (questa sì una ossessione dell’autore) con la sua desolante “fortuna”, con la sua desolante fine: «Di fronte o di spalle; ora,/ non ha più importanza:/ il gallo sta cantando per la terza volta/ nella fioca luce del crepuscolo californiano». E seppure il poeta sappia ormai «di quanto si sia ridotto il mio spazio/ nel cesto del tempo», sa pure che la felicità non è poi così lontana, è sufficiente riconoscerla: «Nessuna meraviglia, dunque, che appaia/ nel silenzio gonfio di una campagna/ o dentro la cornice d’ottone di uno/ spioncino». Riassunto perfetto, questi ultimi versi, della poesia e della visione di vita di Tiziano Broggiato. Nel declinare verso un’umile partecipazione in questo mondo, nel vedere alcuni spazi esigui come gli unici possibili. Colpisce soprattutto quell’osservare la vita attraverso lo spioncino, e solo così poter raggiungere un po’ di felicità, leopardianamente rovesciata la prospettiva, ma coincidente allo stesso tempo; da quel piccolo spazio nascosto, nella lontananza dei corpi, nel distacco, vi è, pare ci dica, una patria, una alterità, una possibile verità. Questa Patria crediamo sia la poesia, che diviene l’occhio privilegiato di ogni visione, seppure allo stesso tempo possa, quell’esiguo spioncino, divenire la fredda assenza dal battito pulsante di tanti cuori. O piuttosto il furore prezioso e attento (che s-vela) verso la vita. Ma poi la fedeltà assoluta alla parola poetica non è un programma o una scelta, ma un destino che accompagna il vero poeta.