Periscopio (globale)
Tempo di poesia
«Tutto è nel tempo, fuorché il tempo stesso»: a partire da questa affermazione di Emile Benveniste si può andare a scandagliare il rapporto tra la parola e la fisica
In una pagina curiosa, seminascosta in un rigorosissimo saggio dal titolo “Il linguaggio e l’esperienza umana” che figura nella sua opera maggiore, i Problemi di linguistica generale, Emile Benveniste si lascia trascinare verso un excursus sul tempo, come se, arrivato a un certo punto della sua esposizione, non potesse sottrarsi al fascino dell’argomento.
“Tutto è nel tempo”, scrive fra l’altro, “fuorché il tempo stesso”, e questo postulato è di per sé sorprendente, nella sua icastica chiarezza. Isola poi tre condizioni: quella stativa, con cui, per capirci, si segna un avvenimento d’importanza fondamentale sul calendario, in modo da creare un asse di riferimento; quella direttiva, che si enuncia attraverso l’opposizione prima/dopo rispetto all’avvenimento di cui sopra; e quella misurativa, che permette appunto di misurare gli intervalli costanti fra le ricorrenze dei vari fenomeni.
Benveniste segnala poi le costrizioni interne: l’asse di riferimento è fisso e non può essere spostato, perché marcato da un evento effettivamente accaduto; gli intervalli sono costanti da entrambi i lati dell’asse e il computo di essi è fisso e immutabile. In altre parole, e per fare un esempio concreto, gli anni non potranno mai confondersi con i giorni, pena il fallimento dell’intero sistema e la perdita di coerenza dello stesso.
Ma il calendario, rileva Benveniste (nella foto), è esterno ed estraneo al tempo, non scorre con lui. Registra una serie di unità costanti, dette per esempio giorni, ma di per sé non ci informa se essi siano nel passato, nel presente o nel futuro, elemento questo che può essere esplicitato solo da chi davvero li vive, li ha vissuti o li vivrà (ovvero vive, ha vissuto o vivrà il tempo) e a questi dati sa dare un senso, in altre parole noi stessi: è la dicotomia fra tempo oggettivo e tempo soggettivo, fra calendario ed esperienza umana. La data, insomma, non è il vissuto soggettivo di quel dato giorno, così come mutatis mutandis il numero non dice in realtà nulla dell’oggetto o degli oggetti che consente, appunto, di enumerare.
Parlo di questa pagina di Benveniste intanto perché è sorprendente all’interno del suo proprio contesto, la raccolta dei saggi fondamentali di uno dei fondatori della linguistica post-saussuriana, ma soprattutto perché è nel rapporto, spesso difficile e contrastato, con il tempo che si compiono quasi sempre l’atto linguistico e quello poetico, e più in generale la nostra interazione con il mondo esterno.
Il fisico Carlo Rovelli, uno scienziato dotato di notevoli capacità divulgative, ne parla brevemente nell’ultimo, riepilogativo capitolo del recente L’ordine del tempo (Adelphi, 2017), in cui riassume le nostre conoscenze riguardo al tempo e le ipotesi più ragionevoli che la fisica attuale è in grado di avanzare. Alcuni elementi, scrive Rovelli, sono accertati grazie a esperimenti scientifici: “il rallentamento con l’altezza e la velocità, la non esistenza del presente, la relazione fra tempo e campo gravitazionale, il fatto che le relazioni fra i diversi tempi siano dinamiche, che le equazioni elementari non conoscano la direzione del tempo, la relazione fra entropia e direzione del tempo, la relazione fra entropia e sfocatura.” Su questo, in altre parole, non ci sono più dubbi; restano tuttavia da provare in modo sperimentale molte altre ipotesi come, ad esempio, le proprietà quantistiche del campo gravitazionale.
Rovelli ricorda poi l’importanza del tempo per il pensiero filosofico, e anche se non menziona esplicitamente la poesia fa comunque riferimento a quella che chiama “l’emozione del tempo”, la risposta che ciascuno di noi dà (o cerca di dare) al grande mistero. Emozione in qualche modo giustificata e persino promossa dalla teoria della relatività einsteiniana quando postula che non esista un unico presente, universale per tutti, e che siano in realtà i nostri sensi e le loro percezioni a ingannarci, un po’ come quando, pur sapendo che è falso, continuiamo a parlare di tramonto del sole, attribuendo il movimento relativo al Sole anziché alla Terra.
Quello che percepiamo come continuum temporale non sarebbe poi così continuo e regolare, apparirebbe anzi per così dire più granulare che liquido, e consisterebbe di un cambiamento che avviene per salti, grazie a un processo di crescente disordine o entropia, ma solo a livello macroscopico, l’unico di cui peraltro ci rendiamo conto. Il cosiddetto andamento del tempo è tutt’altro che uniforme, insomma, e a un livello sperimentale avanzato questa difformità – il tempo è più lento quanto più si sia vicini a un campo gravitazionale – può essere comprovata. Quanto poi all’entropia, essa dipende anche da quella che Rovelli chiama sfocatura nel modo in cui ci rapportiamo al mondo, sfocatura dovuta alla parzialità del nostro vivere le cose, che ci permette di vederne solo alcune e non altre, per cui ad esempio la nozione di un “presente” valido per tutti è limitata a fatti ed eventi a noi vicini.
Mi fermo qui: non sono un fisico e non voglio dire troppe sciocchezze al riguardo; quello che m’interessa stabilire, semmai, sono le potenzialità poetiche di tutto questo discorso, gli spiragli che esso apre su una possibile, diversa maniera di concepire l’universo e di rapportare ad esso l’esperienza umana.
“Tutto è nel tempo fuorché il tempo stesso”: tale l’intuizione di Benveniste, per ribadire la quale sembriamo cercare ancora conferme definitive nella ricerca sperimentale; ma intanto possiamo dire che noi siamo in un tempo, nel nostro, il tempo della nostra piccola esperienza, al quale riconosciamo un ordine e un’uniformità che al Tempo vero, invece, quello con la T maiuscola, non appartengono. Cercare nell’evocazione lirica un riflesso di quest’ultimo, che ci faccia travalicare quanto d’ingenuo e parziale c’è nella nostra percezione delle cose, potrebbe davvero essere uno dei compiti del poeta di domani. Un compito tra i più emozionanti.