Marco Ferrari
Ricordo di un campione dimenticato

L’ha detto Castellazzi

Si chiamava Mario Castellazzi: era un attaccante di razza. Un giorno del 1961, con il suo Catania, affondò la mitica Inter di Helenio Herrera. E la radio annunciò all'Italia: «Clamoroso al Cibali!»

«Clamoroso al Cibali!» gridò Sandro Ciotti rubando la linea a Tutto il calcio minuto per minuto. L’Italia, allora incollata alle radioline e non ai cellulari, restò col fiato sospeso. Era una calda domenica quasi estiva, 4 giugno 1961, ultima di campionato. E al Cibali, come si chiamava allora lo stadio di Catania, oggi intitolato all’ex Presidente Angelo Massimino, avevano segnato i padroni di casa alla grande Inter di Helenio Herrera. E a segnare era stato Mario Castellazzi, appena deceduto alla Spezia all’età di 82 anni.

Quel giorno del 1961, raccolta una corta respinta dello svedese Lindskog, Castellazzati stoppò di petto e calciò al volo insaccando la sfera alla sinistra dell’incolpevole Mario Da Pozzo. L’arbitro Bruno De Marchi indicò subito il centro del campo mentre la rete si sgonfiava pian piano e Ciotti faceva sentire la sua voce rauca all’Italia del pallone. Nella ripresa, Castellazzi rifece un gol ma De Marchi lo annullò tra le proteste lasciando strozzato il grido di Ciotti. Ma al ’70 l’argentino Calvanese, uno dei tanti oriundi giunti in Italia all’epoca, mandò in visibilio lo stadio catanese: steso da Facchetti si rialzò e incassò il 2-0. Il contemporaneo pareggio della Juventus con il Bari mandava in paradiso la squadra di Agnelli che doveva ancora recuperare proprio la partita con l’Inter di Corso e Picchi, rinviata per invasione di campo. Per gli etnei, guidati da Carmelo Di Bella, fu il coronamento di una bella stagione conclusa all’ottavo posto con la Sampdoria di Monzeglio al quarto posto e il Genoa che annaspava in serie B.

Per Castellazzi, che allora faceva l’ala, prima di diventare regista, la vicenda di quella partita veniva da lontano: «Nel girone d’andata – raccontava – ci presentammo a Milano secondi in classifica a due soli punti dall’Inter, pur essendo neopromossi in serie A. Vincendo, avremmo potuto chiudere con il titolo di campioni d’inverno assieme ai nerazzurri, invece perdemmo addirittura 5-0 con ben quattro autoreti. Ma dopo il danno ecco la beffa: Helenio Herrera a fine partita sostenne che eravamo una squadretta di postelegrafonici. Ci rimanemmo male avendo già battuto il Milan e il Napoli, e il Bologna in trasferta. Così al ritorno mister Di Bella ci disse che avevamo la possibilità di dimostrare a Herrera che eravamo una squadra vera. Giocammo la partita della vita, una partita di tecnica e di cuore». E Castellazzi fu il migliore in campo, imprendibile per tutti i novanta minuti: «Avevamo trovato una soluzione tattica nuova: io partivo largo sulla fascia – raccontava – per poi accentrarmi e duettare con Calvanese. Segnai il gol del vantaggio con un bel tiro al volo sotto la traversa. Venne giù lo stadio. Poi presi un palo e mi fu annullato un altro gol ingiustamente. Calvanese fece il 2-0 e chiuse la partita, ma onestamente avremmo meritato di vincere con uno scarto maggiore. Ricordo che mi marcava Armando Picchi, ma non riuscì a fermarmi una volta. Mi chiese: “Ti sei drogato? Fai tutto quello che vuoi”. È stata una fra le partite più belle di quella stagione e fra le sfide che vengono maggiormente ricordate. Come disse Ciotti in radiocronaca, accadde davvero qualcosa di clamoroso quel giorno al Cibali». Da allora in avanti, quando un giornalista vuole definire la vittoria a sorpresa di una piccola squadra contro una ‘big’, si appropria di quella terminologia: “Clamoroso al Cibali!”. E la frase è usata anche quando accade qualcosa di eclatante nella vita.

Ma nel calcio moderno è possibile riscrivere pagine del genere? «Devo ammettere – ha confessato Castellazzi pochi giorni fa, prima di morire – che si è verificato un cambio notevole fra il calcio attuale e quello d’allora. Ma credo anche che favole del genere possano verificarsi tutt’oggi. L’importante è che nel gruppo ci sia amicizia, voglia di lottare e di sacrificarsi per gli altri. Non c’erano invidie fra noi; eravamo accomunati dalla stessa volontà di vincere e battere l’avversario, qualunque fosse. Se c’è unione si gioca senza paura e con la mente libera. Ed è li che vengono fuori i veri valori: un giocatore deve sempre avere entusiasmo. Il tutto accompagnato da buone doti tecniche, certo. E noi, pur essendo una squadra neopromossa, ne avevamo molte. A Roma, pur giocando con grandissimi campioni, eravamo conoscenti più che amici. Finito l’allenamento o la partita, ognuno tornava a casa propria e alla sua vita. A Catania eravamo sempre assieme. Sono questi i giusti ingredienti per far diventare grande anche una piccola squadra».

Dopo due anni di Catania, Castellazzi si trasferì prima a Livorno e poi a Pistoia, fino a tornare e chiudere la carriera in riva al Golfo dal 1964 al ’68 (138 presenze con 26 reti), dove era già esploso nelle stagioni dal ’57 al ’59 guadagnandosi il trasferimenti prima alla Roma e poi in Sicilia. Al termine della carriera, a parte qualche esperienza da allenatore, persino nella sua città natale, Finale Emilia dove era nato nel 1935, restò a vivere alla Spezia dove aveva messo su famiglia. Non mancava mai allo stadio e nelle trasmissioni di Tele Liguria Sud dedicate alla squadra aquilotta di cui era il supporter numero uno ma con spirito critico e sagace, da tecnico preparato. Nei bar e in piazza del mercato le sue parole erano come un oracolo. Tutti lo citavano come uno spezzino vero chiamandolo semplicemente “Castello”. Così un suo giudizio era un verbo: «Lo ha detto Castello». E quel giudizio passava di bocca in bocca e diventava verità.

Facebooktwitterlinkedin