Leopoldo Carlesimo
La prima puntata di un racconto inedito

Ladri di gasolio

«René infila l’asta di ferro nell’imboccatura del serbatoio, quattro colpi di pietra ben assestati e l’asta sfonda la griglia, penetra dentro la tanica, s’immerge nel gasolio... un odore intenso di nafta sale nell’aria. René estrae l’asta, infila svelto un pezzo di tubo di gomma e succhia…»

Gli slip, unico indumento che indossa, sono sbrindellati e sudici. Dalla sgambatura allentata s’intravede la pelle raggrinzita dei coglioni. Il tronco è robusto. Bei muscoli dorsali tesi ad arco tra i fianchi saldi e le scapole. Puoi contare le costole, esposte ad una ad una in una posa innaturale. Omeri e spalle larghe sopra le quali spicca il collo ben piantato. Pomo d’adamo che va su e giù come un pistone dentro la fodera di pelle nera. Tendini tesi, mani legate dietro la schiena e poi, con un corrente doppio, alle caviglie impastoiate. Incaprettato come un animale.

Per farlo, si sono serviti di un laccio rigido, di quelli che si usano giù in magazzino per imballare le casse. La plastica tagliente fa sanguinare polsi e caviglie. Anche altre parti del corpo sanguinano: ginocchia, pettorali, arcata sopracciliare, mento. Il labbro inferiore è spaccato. Tra le labbra arricciate, la dentatura bianca e forte splende alla luce dell’unico neon del posto di guardia. Zigomi alti, naso diritto, viso lungo e stempiato, lineamenti eleganti da giovane peul, guastati dalle cicatrici tribali che tempestano le guance e l’ampia fronte. Qualche livido violaceo soffuso sulla pelle nera. Il viola è un effetto del neon, luce bianco-violetta che piove dall’alto, dal tubo di vetro fluorescente collegato a un cavo volante appeso in cima a un palo. Attrae nugoli d’insetti, che svolazzano contro il breve tratto illuminato di lamiera color ruggine del container. Grossi tafani dalla testa blu si posano sulle ferite, zampettando nel sangue raggrumato.

Il portellone del container è aperto, l’interno è buio. Floscia, appesa a un’asta di legno, pende nell’aria immobile una bandiera. A quest’ora di notte il vento è caduto, l’aria è calda e ferma. Al trasandato check-point notturno d’ingresso al cantiere, la sbarra d’acciaio col contrappeso di cemento è alzata. Dietro la sbarra, sparse in disordine sotto il baboab, alcune sedie scompagnate, una panca, buste di plastica, stuoie di vimini che cingono quattro pali di legno conficcati in terra e sormontati da una tettoia di lamiera. Una sorta di capanna, lo scalcinato ufficio del posto di guardia, con tanto di tavola mal piallata appoggiata su due bidoni, a fare da scrivania. Sopra c’è un brogliaccio a quadretti per segnare ingressi e uscite. Tre gendarmi bivaccano. Uniformi lacere e macilente, anfibi slacciati, vuoti di birra sparpagliati in terra, cartacce, immondizia e un kalashnikov negligentemente appoggiato alla base dell’immenso tronco. L’ombrello amplissimo del baobab, coi suoi rami spogli, copre tutto lo spiazzo del presidio fisso di gendarmeria a ridosso della diga.

È notte fonda, le tre, forse le quattro, tra un po’ farà l’alba. Il giovane prigioniero peul è disteso sulla battuta di cemento che fa da ingresso al container. Ha il collo poggiato in terra, di traverso alla soglia, mezzo dentro e mezzo fuori. C’è bonaccia, ma se un improvviso colpo di vento facesse sbattere il portellone, glielo trancerebbe come una ghigliottina.

“Questo gran figlio di puttana…” Dice Soumaila, fissando il ragazzo a terra.

“Che fegato, però, intrufolarsi fin dentro al magazzino,” dice Farouk.

“Ma quale fegato… Glielo do io, il fegato… E adesso guardalo! Vorrebbe anche farci pena! Questi bastardi di Soronkoni. Tutti ladri, dal primo all’ultimo. Pure i vecchi e le donne, pure i bambini. Pure i neonati. Tutti gran figli di puttana!”

* * *

Il gruppo di ragazzi è nascosto nell’erba alta con le taniche. Fitto cespugliame, brousse folta ai lati della pista che porta in cava. Il rilevato in laterite corre per un tratto rettilineo, in leggera pendenza verso il dosso; poi piega a destra e sparisce alla vista, nella penombra cupa della macchia appena rischiarata dal debole riflesso notturno. Lo slargo è all’incirca a metà del rettilineo, una piattaforma in terra battuta circondata di cespugli. All’estremità della strada, subito dopo la curva, spunta una luce che in pochi istanti si sdoppia: due fari in avvicinamento. E un motore che romba sulla pista, s’intravede a tratti, sempre più nitida, la mole scura del camion che ingigantisce sullo sterrato.

Il mastodontico dumper da movimento terra accosta in uno stridio di freni, sbuffi d’aria compressa, sgranare di marce. Una nube di polvere ne avvolge la sagoma dai contorni sfioccati, che infine si ferma con un muggito da pachiderma. L’autista lascia il motore acceso, spalanca lo sportello e salta giù, tre balzi scimmieschi agganciato alla scaletta in ferro che dalla cabina di guida, seguendo il profilo del parafango, scivola giù fino al predellino, s’appoggia all’enorme pneumatico anteriore, alto più di lui, un’ultima spinta contro il battistrada ed è a terra.

Vite! Vite!” brontola. “Svelti!”

I ragazzi saltano fuori dai cespugli, s’arrampicano sul rilevato ciascuno con due jerrycan gialle, due taniche, una per mano. L’autista svita veloce il tappo del serbatoio.

Oh merde! Ils ont remis cette maudite grille! Hanno rimesso quella fottuta griglia!” Impreca.

René, uno dei ragazzi, scatta senza farselo dire due volte. Corre giù dal rilevato, s’infila in un cespuglio, ritorna su in un lampo, con un’asta di ferro e una grossa pietra. “Vite! Spicciati!” lo incalza l’autista, un uomo sulla quarantina, calzonacci sporchi e logori, camicione a sacco, barbetta rada già punteggiata di grigio, un occhio mezzo guercio e un rametto di cola infilato tra i denti. Cicatrici tribali sulle guance e sulla fronte, slabbri di pelle profondamente incisa, tre per parte, grossomodo gli stessi che mostrano altri ragazzi della banda, incluso René. Il marchio sociale della tribù.

René infila l’asta di ferro nell’imboccatura del serbatoio, quattro colpi di pietra ben assestati e l’asta sfonda la griglia, penetra dentro la tanica, s’immerge nel gasolio… un odore intenso di nafta sale nell’aria. René estrae l’asta, infila svelto un pezzo di tubo di gomma e succhia…

Un getto di gasolio. Un meraviglioso getto di gasolio, robusto e stabile, fuoriesce dal tubo. I ragazzi gli passano le taniche, ad una ad una, René le riempie e le ripassa ai compagni, e ad ogni coppia di taniche riempite un ragazzo vola giù dal rilevato e prende la via della brousse, di corsa. S’inoltra tra i cespugli, le jerrycan strette in pugno, e sparisce alla vista, inghiottito dal buio, l’ultima cosa che si vede di lui è il riflesso giallo chiaro delle taniche, una per mano, che accompagnano la sua corsa notturna: due boe trainate da un grosso pesce in fuga. Quando neanche più le taniche sono visibili, s’intravede ancora una tenue traccia nell’erba alta, la scia che si chiude dietro di lui, onde d’erba si propagano per la brousse al suo passaggio.

I fuggiaschi cercano alla cieca l’attacco più vicino al sentiero di Soronkoni. Di lì, poi, saranno ancora quattro-cinque chilometri, fino al villaggio. Le jerrycan da venti litri pesano, ma è solo il primo tratto di brousse quello pericoloso, che occorre fare di corsa. Poi, una volta raggiunto il sentiero, il territorio si fa più amico, si può rallentare, i gendarmi non osano spingersi fin laggiù.

Continuano a partire, un ragazzo e una coppia di taniche, nel buio della brousse appena rischiarata dal barlume notturno, con regolarità, all’incirca ogni tre minuti. Ma non le hanno ancora riempite tutte, quando una luce appare alla svolta della pista, e subito si sdoppia in due fari ravvicinati.

La surveillance!” Grida quello che fa da palo. “Arrivano!”

Vite! Vite!” urla l’autista.

René caccia fuori il tubo, riavvita il tappo, prende con sé tubo, asta di ferro e pietra, mentre gli altri ragazzi portano via le taniche vuote, e tutti assieme si scapicollano giù per il rilevato, spariscono nella notte, mentre il faro mobile del pick-up dei vigilantes punta il camion, sventaglia l’erba e i cespugli, la distesa piatta della brousse, alla ricerca dei fuggitivi.

Quando il pick-up accosta, e un bianco della security accompagnato da due neri in uniforme scende, l’autista è accovacciato poco oltre il camion. Si fa trovare con le braghe calate, seminascosto dietro un cespuglio.

“Che succede? Che cazzo fai, qua fermo?” Fa il bianco. Punta la torcia.

“Nulla patron. Je me soulage. Stavo cagando. Non la potevo più tenere, patron, quando scappa scappa… Per questo m’ero fermato.”

“Sì, eh? Non erano invece quei ragazzi, che scappavano, con le jerrycan?”

“Quali ragazzi, patron? Nessun ragazzo. Ho la diarrea. È tutto il giorno che mi tormenta…”

“Certo, come no…” fa il bianco. “Abdoul, Sana, controllate il serbatoio,” ordina, rivolto ai due neri in uniforme. I due svitano il tappo, infilano dentro le dita.

“Sfondata,” fa Abdoul.

“E questo? Anche di questo non sai niente?” Fa il bianco all’autista, puntandogli la torcia in faccia. “La griglia del serbatoio è sfondata.”

“Che ne so io, patron? L’avranno sfondata quelli del rifornimento, con la pistola, sai, per fare in fretta…” dice, rimbracandosi, infilandosi la camicia dentro i calzoni. Li stringe con un pezzo di spago che fa da cintura. “Posso andare, patron? Patron Toni, del movimento terra, chi lo sente, se no? S’incazza di brutto, se mi becca fermo, dice che perdiamo viaggi, produzione… Devo ripartire subito, patron.”

“Certo, certo, vai… Però prima…” Fa un cenno a Sana, che di passaggio, diretto verso il pick-up, fingendo di non farlo apposta colpisce l’autista col manganello, una botta secca, di punta, alla bocca dello stomaco. L’uomo si piega in due, cade a terra. “Oh, scusa,” fa Sana, “non volevo. Non t’avrò fatto male, no?”

L’uomo boccheggia, ma fa cenno di no con la testa. Si rialza, tenendosi una mano premuta sotto lo sterno. “No,” balbetta a stento. “È questa maledetta diarrea. Ho il mal di pancia da stamattina…”

“Avrai mangiato qualcosa,” fa il bianco. “Stacci attento. Se ti capita un’altra volta, magari ti va peggio. C’è chi ci crepa, di diarrea, al villaggio. Abdoul! Sana! Andiamo,” dice. S’avviano verso il pick-up.

Anche l’autista risale sul camion, arrampicandosi sulla scaletta in ferro. Si tiene una mano premuta sul fianco. Ingrana la marcia, grattando, riparte.

I ragazzi sono spariti tutti, a quest’ora saranno già lontani, nella brousse o lungo il sentiero di Soronkoni, con le loro jerrycan piene o vuote, bene comune che la tribù ha affidato loro.

Tutti, salvo René. Non ha seguito i compagni, è rimasto appiattato nell’erba, nei primi metri di brousse, a due passi dal camion. Ha assistito a tutta la scena, nascosto dietro un cespuglio. Quando il pick-up riparte, e il camion riparte, e quell’angolo di brousse torna solitario, silenzioso e deserto, René si alza in piedi, resta a fissare per qualche istante la pista, poi si volta, s’avvia anche lui per la brousse, sotto un cielo fumoso di nuvole mobili, grigio-violette, che offuscano una flaccida luna. Deve affrettarsi, pare che stanotte si metta al brutto, forse pioverà.

* * *

Eclaté, la nuova boite de nuit recentemente aperta a Soronkoni. Sabato, ore due del mattino. Sopra al recinto di pali di legno, una nube biancastra incombe sulla cima della collina. Tubi al neon colorati sormontano la palizzata. L’umidità notturna diffonde il riflesso del maquis, dei suoi fari spot e dello schermo su cui scorrono immagini di videoclip. Questo chiarore, questa falla di luce nel buio compatto della brousse, attrae come insetti i nottambulli della Moyenne Guinée.

Sul piazzale sabbioso antistante l’ingresso c’è ancora una mezza dozzina di pick-up. Era gremito, fino a un’ora fa, questo sgangherato parcheggio improvvisato, dove un gruppetto di ragazzini bivacca tra le auto in sosta. Seduti in terra, a circolo, tra pneumatici e radiatori ancora caldi, impegnati nel rendiconto serale.

Alors, Bila? Quanto?”

Bila conta le monete rovesciate da un sacchetto su una pietra piatta che fa da tavolo. “Trois-cent cinquante,” dice.

“Trecentocinquanta? Solo? Ma che dici, se abbiamo fatto più di cinquanta macchine…”

“Eh, cinquanta?” Fa Bila, con un gesto della mano; come a dire: esageri! “Che le hai contate…?”

“Certo,” fa Rachid.

“Sì, eh? Beh, allora conta anche queste!” Bila sbatte sul palmo della mano di Rachid il sacchetto e le monete. Rachid conta. “Trois-cent-cinquante…” dice.

“Hai visto?”

“Ho visto, sì… Non è che per caso te n’è scivolata qualcuna in tasca?” Rachid lo fissa. Espressione dura sul volto da teppista in erba. Un po’ copiata da quelle viste sul grande schermo dell’Eclaté, la novità più recente di Soronkoni, che tra i ragazzini va per la maggiore. S’arrampicano sulla palizzata, per vedere a sbafo le immagini dei videoclip che scorrono sullo schermo della boite de nuit. Sono i più grandicelli, lui e Bila, undici, dodici anni. Tutti gli altri pischelli ne hanno meno di dieci. “Forza, frughiamolo!” Grida Rachid.

“Non vi azzardate a toccarmi!” Bila agita i pugni, prova ad afferrare una bottiglia vuota, per terra, lì a un passo. Ma Rachid è più svelto, l’allontana con un calcio e allora Bila si volta e corre giù per il sentiero che scende dalla collina, e Rachid e gli altri si lanciano al suo inseguimento.

* * *

Soronkoni, insediamento peul alla fine della pista, ultimo villaggio prima del Konkouré. Poco oltre il dosso, una montagna di sassi segna l’inizio dell’incisione del fiume. I Peul, popolo nomade del Sahel, qui in Moyenne Guinée trasformatosi in comunità stanziale, sono l’etnia dominante della regione. Forse l’unico pezzo d’Africa in cui lo siano.

Qualche mese fa quaggiù non c’era niente. Grappoli di capanne di paglia e fango, agricoltura di sussistenza, allevamento brado, pesca stagionale da giugno a ottobre, quando il fiume porta acqua; un’organizzazione sociale primitiva, che garantisce a malapena la sopravvivenza; mercatini luridi, dove tra urla, liti, sudiciume e insulti si esercita un miserabile commercio.

Ma da quando è cominciata la costruzione della diga, qualcosa qui è cambiato. La pista che, attraverso cinquanta chilometri di brousse, connette Soronkoni alla camionabile per Conakry, è percorsa quotidanamente da un flusso ininterrotto di merci: autocisterne di carburante, piattine di tondino, cocotte di cemento, carichi di ricambi, attrezzature, macchinari. La massa di rifornimenti del cantiere.

Tutta roba che proviene dal porto di Conakry. Attraversa la fascia costiera del Paese, s’inoltra nell’altopiano, lungo trecento chilometri di camionabile, imbocca l’ultimo tratto di pista sterrata e arriva fin qui, a Soronkoni, sperduto villaggio a ridosso del Konkouré.

Quest’invasione di merci ha trasformato il territorio e i suoi abitanti. Costruzioni di mattoni e lamiera sono sorte come funghi attorno alle paillotes, tutti i villaggi disseminati lungo la pista si sono ingranditi e attraggono popolazione dal resto del Paese. Sulle tettoie di tolla – ma anche su quelle di paglia – sono comparse parabole della tivù. Le antenne telefoniche che portano il segnale fino in diga coprono l’intera fascia di brousse lungo la pista, e tutti, qui, ormai possiedono un telefonino. Sono cominciate le assunzioni. Uomini e donne in età da lavoro sono il serbatoio di manodopera della diga. Fanno gli autisti, i manovali, le inservienti di pulizia e di mensa, le lavandaie, i guardiani. In poche settimane, sono passati dalla miseria monotona e libera del villaggio, alla dura organizzazione del lavoro industriale subalterno, scandito da orari e regole.

Certo, non tutti possono lavorare in diga. Però anche quelli che non lo fanno hanno trovato modo di approfittare della sua costruzione, di prendersi la loro parte. A Soronkoni sono spuntati un’infinità di negozietti, spacci, empori, bottegucce. È esploso il piccolo commercio. In paese circola del denaro, c’è questa novità, tutti hanno molti più soldi in tasca. Pullulano i maquis, i bar notturni dove dopo il lavoro vanno a distrarsi gli uomini del cantiere. Le ragazze dei dintorni hanno imparato a dare un valore alla loro bellezza. Prospera il piccolo contrabbando di alcolici, tabacco, droghe leggere e altri beni più o meno leciti.

Le paghe di chi lavora in diga sono altissime, comparate al denaro di cui disponevano fino a poco tempo fa. Ma basse, rispetto al valore delle merci da cui quest’angolo di brousse è invaso. Se un autista guadagna dieci dollari al giorno, rubando dieci litri di gasolio o un sacco di cemento raddoppia la paga. Ed è fin troppo facile succhiare nafta dai serbatoi durante il turno di notte. Tutta l’economia di Soronkoni cresce con la diga, mezza sopra il pelo dell’onestà. Qui ci occupiamo della metà sotto.

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Fine della prima puntata. Continua.

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