L'ultima puntata di "Ladri di gasolio"
La fuga di Cléo
«E allora, corre di nuovo, Cléo, un’altra corsa pazza nel buio della brousse, a ritroso, fino al cantiere, al capannone del magazzino… Ci arriva col cuore in gola, senza più fiato, con la milza che picchia, furiosa»
Riassunto delle prime due puntate: nei pressi di Soronkoni, minuscolo villaggio della Moyenne Guinée, Africa occidentale, è in corso la costruzione di una diga sul fiume Konkouré. La vita delle comunità peul che abitano questo tratto d’altopiano è sconvolta dall’irruzione della macchina industriale del cantiere. Il villaggio si trasforma nel terminale del flusso di merci che alimenta la diga, la sua ricchezza cresce, le occupazioni dei suoi abitanti cambiano. René capeggia una banda di ragazzi che assalta i mezzi del cantiere per rubare carburante e altre merci. Sua sorella Nadine si prostituisce in un maquis alla perifera di Soronkoni, l’Eclaté. Un’amica di Nadine, Cléo, diciottenne, s’è messa per interesse col capo del magazzino della diga, Ceschin, un vecchio settantenne; ma è innamorata di René, con cui inizia una relazione clandestina; e con lui architetta un piano per derubare il magazzino della diga.
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Ceschin è un omaccione ancora solido, malgrado i suoi settantadue anni. È originario di Cittadella (Padova) dove ha una casa e una moglie. Due figli, entrambi sposati, uno lavora a Verona, l’altro a Bassano del Grappa. Una mezza dozzina di nipoti. Da una vita fa il magazziniere nei cantieri. Raggiunta l’età della pensione, qualche anno fa, ha provato a smettere. Ma dopo quarant’anni d’Africa la vita italiana proprio non l’ha retta, e in capo a sei mesi non ne poteva più, s’è trovato un altro contratto ed è ripartito. Si sa, nei cantieri c’è sempre bisogno.
La moglie, Elvira, per un ventennio l’ha seguito in quella vita errante, da un cantiere all’altro e da un continente all’altro, abitando alloggi di campi di cantiere, facendone di volta in volta la loro casa, vivendo la precaria vita delle mogli di cantiere, delle madri di cantiere, finché i figli non sono cresciuti, ai tempi in cui nei cantieri ancora c’erano le scuole. Quando poi il più grande prese la licenza media, Elvira – che da donna economa e saggia in quei vent’anni aveva preparato il terreno del ritorno, aveva rimesso a posto la casa di famiglia, in paese, e tenuto i contatti con amici e parenti – lei tornò a Cittadella, assieme ai ragazzi. Mentre Ceschin seguì il mestiere, su e giù per l’Africa, di diga in diga, facendosi vedere ogni tanto a casa. Due o tre volte all’anno, nei brevi periodi di ferie.
È un brav’uomo, Ceschin, non si può dir nulla di lui. Magazziniere in gamba e buon marito. Nei primi vent’anni di matrimonio, finché Elvira gli è stata accanto, non l’ha tradita mai, nemmeno una volta. E anche dopo, quand’è rimasto in giro all’estero da solo, non ha preso sbandate. Certo, via lei, con le ragazze dei posti di cantiere, di quando in quando c’è andato. Per forza, quel po’ che serve. E anche se con Elvira non ne hanno mai parlato, lei – che nei cantieri c’è stata, e conosce la vita che ci fanno gli scapoli – naturalmente lo sa. E lo accetta.
In cambio, Ceschin ha sempre fatto arrivare a casa lo stipendio sano; e non è cosa da poco, questa. Lo sa bene, Ceschin, quel che conta nella vita, è uno con la testa sulle spalle, non perde la bussola per certe avventure. Ed è anche lui uno economo, misurato, in cantiere non spende quasi nulla. Ci tiene davvero alla famiglia, solo che non ci riesce a vivere.
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Da qualche tempo, però, questo brav’uomo ha un cruccio: c’è qualcuno che vuole fotterlo; nel magazzino che dirige, giù in Guinea, su quella diga di Soronkoni, ha cominciato a sparire della roba.
A dire la verità, non è mica la prima volta che qualcuno ci si prova, che qualcuno vuole fregare lui… Lui, Ceschin, magazziniere con quarant’anni d’esperienza… Hanno tentato quasi dappertutto. Nei magazzini delle dighe è custodita merce per milioni, e in tutti i cantieri per cui è passato sempre la stessa storia: qualcuno che prova a fare il furbo, qualcuno che vuole fotterlo.
E allora Ceschin si mette all’erta, comincia a investigare. I primi sospetti sono, naturalmente, i suoi impiegati, i neri che lavorano in magazzino. I trucchi classici: qualcuno che s’infila la roba sotto i vestiti, quando smonta, o la butta appena fuori dalla recinzione e poi torna di notte a prenderla, oppure la passa a qualche complice che la porta via, e naturalmente aggiusta le bolle di scarico… I modi sono tanti, ma Ceschin ha esperienza, li conosce tutti, e prima o poi beccherà il ladro.
Nessuno dei suoi impiegati, naturalmente, ha le chiavi. Esiste un unico mazzo, il bastone del comando, e quello è sempre e solo Ceschin che lo detiene. Quando chiude il magazzino la sera, e inchiavarda lucchetti e catenacci, e passa in rassegna tutte le serrature, i paletti, i chiavistelli; e poi, prima di andarsene, fa ancora un giro attorno alla recinzione; ed è sempre l’ultimo a lasciare il magazzino e il primo ad aprirlo la mattina dopo, e i lucchetti e i catenacci sono ancora tutti lì, integri, non c’è proprio modo, porco demonio, che durante la notte sparisca qualcosa. Ma questi maledetti, in Guinea, devono essere più furbi che altrove. La roba svanisce dagli scaffali come per incanto, la sera prima c’era, et voilà, la mattina dopo non c’è più. Pare un incantesimo, pare quasi l’opera di un mago. Un loro dannatissimo stregone.
Ha fatto mettere sotto controllo tutti i suoi impiegati, Ceschin, li ha fatti sorvegliare, perquisire, ha fatto perquisire i loro alloggi. Stavolta sembra proprio che i suoi siano puliti.
Però la roba continua a sparire. Ad ogni inventario si scoprono nuovi ammanchi. Pezzi che stanno sugli scaffali: quei bit di perforazione, i ricambi di quei bull-dozer, quei quadri elettrici, quelle schede… Tutta roba che vale un sacco di quattrini.
Sembra quasi che i ladri scelgano, che si servano in magazzino come fosse un supermercato, probabilmente rubano su ordinazione…
Ormai torna a casa, la sera, rabbuiato. Questa faccenda gli sta guastando il sangue. Occupa un alloggio per famiglie, Ceschin, anche se la famiglia non l’ha più con sé. È un riguardo che la direzione del cantiere gli usa, a lui, veterano, magazziniere tra i più anziani della Compagnia. Bella casetta in duro di tre stanze, una delle più accoglienti del campo, col giardinetto dalla siepe curata, il praticello, la veranda… Ci si ritira, Ceschin, come dentro un porto, quando smonta alle sei di sera, dopo dieci ore di duro lavoro. Allora si prepara un bicchierino, si accomoda in veranda, si distende, appoggia le gambe sulla sediola… le sue abitudini serali, confortevoli e rassicuranti. Ma non basta più neanche questo, quest’ordinato rifugio di piccoli rituali, a ridargli serenità. C’è quel topo di magazzino che lo rode…
* * *
E allora, una notte, Ceschin organizza la trappola. Chiude quelli della sorveglianza in magazzino. Tre uomini. Staranno al buio, appostati. Sono d’accordo. A fine giornata, quando tutti i suoi impiegati se ne sono andati, Ceschin li fa entrare di nascosto dentro il capannone, dall’ingresso sul retro, in modo che nessuno veda. Si mettono in agguato tra gli scaffali. Un pezzo di pattuglia, gente armata in contatto radio con quelli di fuori. La trappola è tesa. Ceschin chiude il magazzino. Poi se ne va tranquillamente a casa da Cléo, la sua neretta.
* * *
Chi l’avrebbe detto. Non gli era mai successo, non a lui. È quasi un mese ormai che ci vive insieme, come si dice, more uxorio. La prima nera che si prende in casa.
Li aveva sempre guardati con un po’ di superiorità, lui, quelli che in Africa si fanno una seconda famiglia. Erano cose che non concepiva, non l’avrebbe mai fatta una fesseria del genere. Certi vecchioni che si mettono con le ragazzine, e poi magari si prendono la sbandata e quelle se li rigirano come allocchi… E poi finisce con un divorzio, o con un matrimonio, a seconda dei casi; in un fallimento sicuro, comunque… Ma va’ là, in una trappola del genere non ci sarebbe mai cascato lui, Ceschin, con la sua esperienza, coi suoi quarant’anni di cantiere…
E adesso guardalo: stravede per la sua Cléo. Saranno forse queste ragazze peul, queste femmine altere, di una bellezza primitiva, essenziale, capace di fendere certe pellacce… Beh, quaggiù c’è cascato anche lui. Da qualche tempo non cena più a mensa, Ceschin, mangia sempre a casa, con la sua Cléo. Tutte le sere le passa con lei, non va più al club, non frequenta più i tavoli del tresette o dello scopone, non gioca più a biliardo, i compagni di cantiere ormai lo danno per disperso.
È lei, Cléo, ora, a preparargli l’aperitivo serale. Lui le ha insegnato a fare il Martini e lo Sprutz, vuole che impari a cucinare italiano, la pasta, la pizza. A casa, la sera, gira sempre mezza nuda, gli si strofina contro, pare un gatto che fa le fusa… Lui, d’altro canto, la porta al mercato tutte le domeniche – il mercatino itinerante che settimanalmente fa tappa a Lobé, un villaggio di un migliaio d’anime poco lontano da Soronkoni – a fare acquisti; qualche domenica si spingono fino a Mamou, la città più importante dei dintorni, dove c’è il mercato stabile e si trova tutto, ma proprio tutto. La riempie di regali, gli piace vederla contenta.
Ogni tanto, però, gli sparisce, questa Cléo, e allora Ceschin diventa geloso. La interroga, quando lei fa ritorno, le fa scenate. Cléo ogni volta ha una scusa pronta: qualche storia di parenti, o di malattie, o il parto di una sorella, o una cugina bisognosa, una zia malata da assistere… sempre storie di villaggio, di famiglia; e poi un sacco di di cerimonie – anniversari, matrimoni, funerali – cui non si può sottrarre, i suoi doveri verso la tribù.
Non sparisce mai per molto. Mezza giornata, o da mattina a sera; qualche volta di più, uno o due giorni al massimo. Ma Ceschin ne fa una malattia. È convinto che lei abbia qualcun altro, al villaggio, chissà, magari uno giovane, un suo coetaneo, qualche ragazzo della tribù. È vecchio, Ceschin, ma non ancora completamente rincoglionito, lo sa benissimo che lei lo riempie di bugie.
Però non può farci niente, è più forte di lui. Quando se la trova accanto, nel letto, si scioglie tutto, diventa come burro… E ha sempre più bisogno di confidarsi, di parlare. Lei sta a sentire, ascolta tutto, non lo contraddice mai…
* * *
Così stasera, dopo aver appostato i gendarmi tra gli scaffali, piazzata la sua tagliola, chiude il magazzino, Ceschin, e se ne torna a casa. Sereno, per la prima volta da parecchio tempo in qua. Ha trovato il modo di sistemarlo, quel topo, è convinto che il piano funzionerà… Questo pensiero gli mette addosso allegria, gli è tornato un po’ di buon umore; cammina di buon passo, Ceschin, le mani affondate nelle tasche, se avesse qualche anno di meno gli verrebbe quasi voglia di fischiettare…
Una volta a casa, una bella cenetta con la sua Cléo, che ha preparato una specie di pasta al sugo riuscita così così, non un granché, ma stavolta non ha neppure voglia di lamentarsi della cucina, Ceschin, è in buona, si sente generoso… Butta giù qualche bicchiere di rosso, che gli scalda il sangue e lo rende ancor più espansivo… Si sente di nuovo in forma, Ceschin, e col vino in corpo gli vengono delle voglie, sicché dopo cena si da da fare… Una bottarella riuscita neanche male, meglio del solito, di parecchio sopra la media. Un colpo solo – impossibile per lui fare di più – ma di qualità…
E dopo, quando stanno a letto, mentre si fuma in pace la sua sigaretta, soddisfatto, l’abatjour accesa, la schiena appoggiata al cuscino, si sente in vena di confidenze, Ceschin… Ed è allora che gliene parla. Le racconta del suo cruccio: tutti quei furti, giù in magazzino, e questo figlio di puttana che vuole fotterlo, questo topo inafferrabile che lo rode… Gliela farà vedere. Una bella imboscata gli ha teso, tra gli scaffali…
Si rende conto solo molto più tardi, svegliandosi nel cuore della notte, che lei non c’è. È l’una passata. Il suo posto, nel letto, è vuoto, il materasso è freddo. Cléo se n’è andata. Cléo è assente.
* * *
La corsa pazza di Cléo fino il villaggio dura appena una manciata di minuti, è una ragazza svelta. Le luci dell’Eclaté, le poche rimaste, laggiù in fondo, che ormai si spengono… Ancora uno strappo, manca solo una manciata di metri. Le sagome delle prime capanne di Soronkoni, gli ultimi passi trafelati, la macchia scura del tugurio di René… A momenti butta giù la porta, Cléo, scardina quasi il telaiaccio di legno col riquadro di tolla che fa da battente, compare scarmigliata sulla soglia buia, si precipita dentro…
C’è il pagliericcio. Ci sono pochi panni sparsi a terra. C’è una panca di legno, un miserabile armadio con l’anta cadente, una sedia, una brocca, un catino scheggiato… ma non c’è René. René non è lì, René è assente.
Cléo ha provato ad avvisarlo, appena ha potuto, col telefonino, distraendo Ceschin, cercando di sottrarsi per qualche istante alle sue confidenze; gli ha mandato messaggi e poi, rifugiandosi in bagno con un pretesto, l’ha chiamato. Ma quando parte per quelle spedizioni, René non porta mai con sé il cellulare. Lo lascia nella capanna, per precauzione, è sempre il cellulare che fotte i ladri, lo sanno tutti che lascia tracce. Ed è lì che lo trova Cléo, dentro la capanna, appoggiato sopra il pagliericcio, ancora acceso, con tutti i suoi messaggi non letti, le sue chiamate senza risposta.
E allora, corre di nuovo, Cléo, un’altra corsa pazza nel buio della brousse, a ritroso, fino al cantiere, al capannone del magazzino… Ci arriva col cuore in gola, senza più fiato, con la milza che picchia, furiosa.
Ma arriva solo in tempo per vedere le guardie che lo portano via. Lo caricano su un furgone, ammanettato, e se ne vanno al posto di guardia.
E allora tutto il corpo di Cléo tracolla. È proprio il corpo che cede, s’arrende, dopo il sesso con Ceschin, dopo la corsa disperata e inutile… Scivola giù lentamente, sfinita, contro il tronco della pianta dietro la quale s’era riparata. Senza più forze, svuotata. E resta lì.
Anche se non dovrebbe. Se ne sta così, passiva e immobile, ma non è quel che ci si aspetta da lei, da Cléo, non è questo il momento di concedersi il riposo di un crollo. Perché tra poco Ceschin si sveglierà, capirà tutto, certamente la farà cercare. E anche René, pure lui è una minaccia ormai. Se parlasse – e quelli delle surveillance ne hanno, di sistemi per farlo cantare… Gli troveranno le chiavi, confesserà… E Ceschin, dopo, si vendicherà… C’è solo una cosa che Cléo dovrebbe fare: alzarsi e andarsene. Muoversi. Correre via. Lasciare Soronkoni, allontanarsi, scappare…
Ma invece resta lì, accoccolata, a piangere. Non può fare altro, non smette di piangere. Non riesce proprio ad arrestare le lacrime. Lei che è sempre stata una ragazza sveglia, una delle più in gamba dell’Eclaté. Una che sa quello che vuole, e come ottenerlo… Se ne sta raggomitolata a terra, addossata a una pianta che la nasconde pietosamente alla vista, il corpo scosso da singhiozzi che non può fermare.
E pensare che era nata in modo così diverso, questa storia, in modo spensierato, quasi allegro, solo poche settimane fa, una serata qualunque tra ragazzi in discoteca…
* * *
Quella sera all’Eclaté, poco prima che arrivasse René, lei e Nadine discutevano fitto, sembrava avessero molte cose da dirsi.
“Pensavo non venissi più,” aveva detto Nadine.
“Ho tardato a liberarmi, sai, il mio mec non mi mollava più, è così geloso…” aveva detto Cléo.
Allora è per questo – s’era detta Nadine – è del suo mec che vuole parlarmi, la novità del momento; questo è il motivo per cui ha voluto incontrarmi, per raccontarmela… Questa m’as-tu-vu?, ‘sta vantona…
“Ma va’, sul serio?” Aveva detto Nadine, sorridendo. “Allora è proprio vero… E io che non ci credevo! Le altre spettegolavano… ma io le zittivo, convinta: no, vi sbagliate, non la mia amica, non Cléo; non è da lei.”
“Cioè, perché… non è da me? Che vuoi dire?” Aveva fatto Cléo, stizzita. Il tono di Nadine non le piaceva.
“Beh, tu che dicevi sempre: io, legarmi a un bianco? Mai e poi mai. Quelli lì vogliono la schiava…”
Era un po’ un tono di sfida, mezzo ironico, mezzo indifferente, quello che aveva messo su Nadine. Un tantino sostenuto e ipocrita, perché nascondeva un pizzico d’invidia. C’era competizione, tra le ragazze, sugli uomini di cantiere che riuscivano ad accaparrarsi. I più ricchi, i più importanti. Se ne vantavano. Nadine era curiosa di sapere tutta la storia, ma non voleva chiedere, non le andava di darle soddisfazione.
Però in fondo erano buone amiche, Nadine e Cléo, e dopo un po’ di schermaglie, di queste mossette di lotta, s’erano fatte una bella risata ed erano passate oltre, alle confidenze vere, o quasi vere, sincere quant’è possibile tra amiche…
“Guarda,” aveva detto Cléo, “non pensavo… È un tesoro, davvero… Gentile, premuroso, basta niente a commuoverlo, l’ho visto piangere… Un omone grande e grosso, e alla sua età… Potrebbe essere mio nonno… io lo commuovo. Basto io, la mia presenza…”
“Bah… Dài, Cléo,” aveva detto Nadine. “Fai un po’ schifo. Mica perché lui è vecchio, eh, ma perché pare quasi che tu ci credi… quasi quasi, ti ci commuovi anche tu! Non è troppo? Deguelasse, stomachevole!”
“Io, mi commuovo? Ma tu che dici? Io credo solo al fatto che si commuove lui! Ha un cuore così tenero!”
“E come si chiama?”
“Ceschin. Ha settant’anni. Il capo del magazzino, sai, quel pezzo grosso. Oh, uno importante, eh, pieno di grana. Ha una bella casa e un macchinone…”
“E a te, che ti dà?”
“Tutto! È generoso, mi basta chiedere. Guarda questa collana…”
Aveva sfoggiato ogni cosa, Cléo, s’era messa in gran tiro. E ora le dava pure lezioni:
“Trovati un mec come il mio, Nadine. Dammi retta!” Le aveva detto.
Al che Nadine aveva risposto seccamente:
“Io? Neanche per sogno! Io sono rimasta quella di una volta, non sono cambiata, io! Come dicevi, tu?… Sei matta? Io non voglio legami, con quelli là, pure a letto si sentono patron… E adesso guardati!”
“Ma Nadine, non è mica per tutta la vita!” Aveva insistito Cléo. “Ci stai due anni, tre, quanto dura il cantiere. Metti da parte il tuo gruzzoletto. E alla fine, se ci sai fare, prima che lui se ne riparta, riesci pure a fargli metter su una casetta, che poi resta a te, o magari a farti aprire un negozietto, una botteguccia di coiffure…”
“Sì, ma per tre anni hai un padrone… E poi lo sanno tutte come va a finire. No, io voglio essere libera, scelgo io se, come e quando…”
“Bella libertà, la tua! Tutte le notti in boite, due, tre mec a notte… E alla fine, che ci guadagni? Qualche spicciolo!”
E proprio in quel momento, era comparso René. L’avevano visto apparire all’ingresso dell’Eclaté, con quel sacco sulle spalle, quell’aria stracca, sconfitta… L’avevano guardato, tutt’e due, in modo diverso, la sorella e l’amica, quel bel ragazzo che veniva a interrompere la loro disputa femminile… erano ammutolite entrambe per un istante, e subito dopo s’eran sbracciate a salutarlo; e quando poi s’era seduto al tavolo, dài a consolarlo, il bel René dall’aria afflitta… Cléo s’era accesa tutta, un sorriso grande così, quel fratellone della sua amica, per cui aveva una cotta fin da bambina…
* * *
E adesso è quasi l’alba al posto di guardia all’ingresso del cantiere. Il prigioniero è legato a terra. I tre gendarmi discutono.
“Datti pace,” dice Nadir. “Per uno che ne acchiappi, cento stanno ancora in giro a farci fessi.”
“Quel covo di ladroni. Soronkoni! Tutti ladri e puttane, dal primo all’ultimo. Tutti quanti!” Dice Faruk.
“Però questo l’ha avuta, la sua lezione,” dice Soumaila. “Una volta che ne prediamo uno, avremo ben il diritto di fargli il culo. Che dici, Nadir, gliele diamo ancora?”
“No, basta,” fa Nadir. “Aspettiamo il sergente. Deciderà lui.”
“È bello robusto. Un altro po’ le tiene. Tu che ne pensi, Faruk?”
“Quello che pensa Faruk non conta. Comando io,” fa Nadir. “Ho detto basta.”
“Oh, sentilo! Quante arie si dà!” Fa Soumaila. “Ehi, Faruk! Pare proprio che gli abbiano dato alla testa, i gradi da caporale… Ohi, Nadir, che ti prende? Non dimenticarti che fino a tre giorni fa eri come noi.”
“E piantala di fare lo sbruffone Soumaila, sei ubriaco…”
“Ubriaco? Sai che ci faccio con i tuoi gradi, signor ‘comando io’? Va’ a farti fottere!”
“Eh dài, Nadir! Che t’ha preso?” Interviene Faruk. “Perché litigare tra noi? Se ha voglia di menare un altro po’ le mani, lasciaglielo fare. Che te ne frega? È bello grosso, Soumaila ha ragione. Che vuoi che gli faccia un’altra passata?”
“Oh, fate un po’ come vi pare. Io vado a farmi un giro… e non arriva mai, ‘sto maledetto sergente!”
Nadir si alza, prende il kalashnikov, s’avvia malvolentieri verso la strada. Gli altri due hanno sciolto la corda di canapa dal paletto infisso a terra. All’altro capo, dentro il cappio, c’è il collo del prigioniero. Lo trascinano. Il volto scivola giù, strofinato contro la terra secca. Ha capelli arruffati, lunghi, e un accenno di barba giovanile. Grandi occhi neri sotto le sopracciglia folte, quasi congiunte alla radice del naso.
“Allora, come ti chiami, brutto bastardo?” Fa Soumaila.
“René… mi chiamo René…” Mormora il prigioniero.
“Ripetilo!”
E giù botte.
Fa quasi freddo. Non albeggia ancora, ma già s’intravede, a oriente, un primissimo indizio di chiarore. È un buio tenace, che un po’ alla volta tende al grigio cupo e precede il pallore incerto dell’aurora, l’ora livida in cui, in questa stagione, comincia a soffiare l’harmattan.
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3. Fine. Clicca qui per leggere la prima puntata e la seconda puntata.