Su «All’ombra delle palme tagliate»
I rovi di Magliani
Ritratto di Marino Magliani, narratore (e ora poeta) ligure per il quale la scrittura è risarcimento consolatorio, autocompensazione e nostalgia di un mondo incantato, visto spesso come un paradiso perduto
Marino Magliani è ormai una presenza autorevole e assidua del panorama letterario italiano. Nel breve arco di tempo di un quindicennio, forse anche meno, ha scritto svariati romanzi e racconti a conferma di una vena copiosa e di una insopprimibile urgenza di raccontarsi e di raccontare. A ciò si aggiungano, non meno interessanti, interventi e collaborazioni a numerose riviste, cartacee e on line, e le traduzioni di alcuni autori ispano-americani; negli ultimi tempi, poi, con la sagacia e il talento dello scrittore di razza, Marino Magliani si è impegnato nel dare visibilità a scrittori liguri sconosciuti, emergenti o semplicemente dimenticati, a lui dobbiamo, infatti, la pubblicazione di quel gioiello che è La ballata della piccola piazza di Elio Lanteri (Transeuropa, 2009) e di Battitore libero di Riccardo Giordano (Philobiblon, 2011).
Marino Magliani è nato a Dolcedo, in provincia di Imperia, ma ha trascorso la sua infanzia a Prelà, in una valle (la val Prino) distesa tra montagne impervie e scoscese, attraversata da un corso d’acqua e punteggiata di frantoi e mulini. E da questo ambiente naturale, al quale è rimasto profondamente legato, Magliani deriva il suo stile scabro, ruvido e poroso, capace di assorbire la luce, i profumi e i sapori della sua Liguria. Dopo il collegio a Nava di cui parla in un libro singolare e bizzarro, decisamente autobiografico, Colonia Alpina Ferrante Aporti (Senzapatria, 2010) e altre deludenti esperienze scolastiche, comincia il suo vagabondaggio umano e culturale e la figura del vagabondo, come nella narrativa di Cesare Pavese, sarà una costante della sua produzione. Dopo molte peregrinazioni in Francia, in Spagna e soprattutto in America latina, scenario di alcuni romanzi Quattro giorni per non morire (Sironi, 2006) e La spiaggia dei cani romantici (Instar, 2011), si stabilisce sulla costa olandese, a Ijmuiden, un paese di pescatori, affondato nella sabbia e spazzato dal vento che ne cambia continuamente il profilo e i connotati, spiazzando non solo gli occasionali visitatori ma anche gli stessi residenti. Qui, in attesa di tornare d’estate nella Riviera Ligure di Ponente a potare gli ulivi, a incontrare i vecchi amici e a caricarsi di nuove emozioni, esperienze e sentimenti, lavora saltuariamente, dedicandosi per la maggior parte del tempo alla scrittura, chiuso nella sua tana come egli definisce, nella bella intervista rilasciata a Marco Scolesi, Dal fondo della tana (Philobiblon, 2016), il proprio studio tappezzato di libri e rischiarato dalla luce elettrica, che favorisce la sua concentrazione e lo isola dal mondo e dagli uomini. Magliani, anche se parla sempre nelle sue opere della sua terra d’origine, non ha scritto neppure una pagina in Liguria, non diversamente da Nico Orengo che, pur avendo ambientato quasi tutti i suoi romanzi nella Riviera di Ponente, ha sempre scritto immerso nel frastuono e nel caos della vita cittadina (Torino). Probabilmente per entrambi la scrittura è risarcimento consolatorio, autocompensazione e nostalgia di un mondo incantato, visto spesso come un paradiso perduto – e di paradiso perduto, Marino Magliani parla in Ritorno a Dolcedo –, da qui la necessità di un filtro, di una distanza materiale e memoriale.
Potremmo servirci dell’intervista rilasciata a Marco Scolesi come bussola per orientarci nel mondo complesso e variegato di Marino Magliani (nella foto) e per individuare le costanti tematiche della sua produzione. Un mondo, il suo, in cui cronaca e storia, pubblico e privato, mito e quotidianità, natura e cultura si intrecciano perfettamente creando degli affreschi di grande respiro sociale e intimistico al contempo. Partiamo, com’è naturale che sia trattandosi di uno scrittore ligure, cresciuto all’ombra di Francesco Biamonti, dal paesaggio che in Marino Magliani assume due dimensioni: quella orizzontale del Mar del Nord, dove si affacciano spiagge di dune sabbiose modulate quotidianamente da un vento forte e impietoso, di cui parla nella cosiddetta trilogia olandese, Amsterdam è una farfalla (Ediciclo, 2011), Soggiorno a Zeewijk (Amos editore, 2014) e Il canale Bracco (Fusta editore, 2015). L’altra dimensione, invece, più presente e più cara all’autore, è quella verticale rappresentata dalla sua Liguria, vista come una zattera sospesa tra il mare e il cielo, dove la luce che ora si leva come un volo di colombe ora rotola a balzi sulle rocce non alleggerisce ma mineralizza, tende cioè a cristallizzare persone, animali e cose. La campagna, inoltre, è invasa dalle erbacce, dai licheni e dalla vitalba, gli ulivi sono aggrediti dalle muffe, i torrenti ridotti a discariche; dovunque sono disseminati segni inequivocabili di abbandono, di degrado, di disfacimento e di morte; gli uccelli volano basso e nidificano tra i rovi; i personaggi, infine, non guardano mai in alto verso il cielo ma in basso verso la terra, una terra continuamente smossa per riportare alla luce segreti e misteri, per liberarla dalle radici aggrovigliate, e al contempo per tacitare i propri sensi di colpa. Senza scomodare Bachtin che a tal proposito parla di cronotopo, va da sé che in Magliani come in molti altri narratori lo spazio non è separabile dal tempo, un tempo malato che fa da pendant a uno spazio degradato, penso a Il collezionista di tempo (Sironi, 2007) e Quella notte a Dolcedo (Longanesi, 2008), e si badi bene non si tratta di coniugare solo hic et nunc, ma anche passato e presente, vicino e lontano, dentro e fuori in narrazioni complesse ma trasparenti, il cui ritmo mosso e vivace per i continui salti di tempo e di luogo diventa talvolta lento e pausato, assecondando l’avvicendarsi delle stagioni e l’alternarsi del dì e della notte.
Al paesaggio, presenza costante in tutta la sua produzione, dobbiamo aggiungere tra i motivi ricorrenti della sua narrativa la droga, per la precisione l’hascisc, si pensi a L’estate dopo Marengo (Philobiblon, 2003), i già citati Quattro giorni per non morire e La spiaggia dei cani romantici; l’amore per la vita dei campi, di cui dimostra di avere una conoscenza dettagliata e approfondita; la nostalgia del passato; i sensi di colpa vivi e presenti data la formazione cattolica dell’autore; i fortissimi e inestricabili legami familiari, e infine quella tensione morale che spinge i suoi personaggi a fare i conti prima ancora con se stessi che con gli altri soprattutto in relazione a un passato carico di ombre e di rimorsi. Ne consegue che spesso il loro cammino viene ad assomigliare a una Via Crucis, punteggiata di spine e di rovi, in cerca di un’espiazione e una catarsi che non sempre conduce alla salvezza.
All’ombra delle palme tagliate (Amos edizioni, 2018) è la più recente fatica letteraria di Marino Magliani ed è la sua prima opera in versi. Si tratta, a ben guardare, di poesia-racconto sulla falsariga di Lavorare stanca di Cesare Pavese (Einaudi, 1936) e alla lontana di Foglie d’erba di Walt Whitman, che non a caso era stato l’argomento della tesi di laurea dello scrittore piemontese nel 1930. Anche Marino Magliani, non diversamente da Cesare Pavese, nei suoi versi, lontani dalle misure tradizionali e dalle gabbie metriche, racconta semplici fatti, descrive il mondo quotidiano, gli ambienti familiari, la campagna con un linguaggio molto vicino al parlato, improntato a chiarezza, semplicità e oggettività. Lo scenario è quello della valle in cui Magliani ha trascorso la sua infanzia, l’età decisiva in cui ognuno di noi edifica la propria mitologia a partire dalla scoperta del mondo, e da cui diciottenne è fuggito per sottrarsi alle sirene di morte che sentiva risuonare nella vallata, dove era condannato a seguire le orme paterne e a farsi contadino, lui che soffriva di vertigini a tal punto da non riuscire neppure a salire su un albero per bacchiare le olive. «Uno se ne va perché un giorno la tromba // della corriera che risale dal mare // sveglia // il cecchino della valle».
Del resto il lavoro del contadino si era fatto sempre più difficile, improbo, e sterile come risulta da questo commosso ritratto del padre, un uomo taciturno, dalla scorza dura e dalla pelle bruciata dal sole, che parlava solo il dialetto ma che cercava pur sempre di rispondere alle domande insistenti del figlio: «Un padre scavava la terra a colpi di tridente // e si chinava a raccogliere scaglie gialle e radici. // Sul bordo fascia lungo il muretto // si ammucchiano le cose grame. // Le radici seccavano, ci mettevano sei mesi // e sei mesi a marcire. // Le scaglie restavano nuove. // L’anno dopo il padre trovava altre radici… // si asciugava col dorso della mano // una goccia di sudore e il tridente scopriva // altre pietre».
E ora che il punteruolo rosso, il parassita arrivato dall’Asia, sta uccidendo quasi tutte le palme della Riviera ligure, la situazione diventa ancora più drammatica; cambia il paesaggio e muta l’animo di coloro che vivono in campagna a contatto con la natura. Non a caso dice Magliani: «…… questa magra valle sepolta tra cielo e rovi // … Non ci si stupisca se sopravvive // la rappresentazione dell’agricoltura // e da tempo non ci sono più contadini».
In questi componimenti si ritrovano figure e personaggi che abbiamo incontrato nei suoi romanzi, a conferma di una continuità di ispirazione che prescinde dalla forma di espressione utilizzata: il prete che, accompagnato da un ragazzino che agita l’aspersorio (probabilmente lo stesso autore), impartisce la benedizione durante la settimana santa o che gioca a pallone in uno spiazzo dietro la canonica, dopo essersi sollevato la tonaca; il vecchio seduto su una panchina o su un muretto che sputa, oltre alla saliva in eccesso, amare e malinconiche sentenze; il cane dell’ultima poesia che ci richiama alla mente Cobre il protagonista dello struggente racconto L’architettura del molo di Porto Maurizio, posto in calce a Il collezionista di tempo già citato.
Il bestiario di Magliani, però, non è riducibile solo all’animale domestico per antonomasia in quanto ne fanno parte molti uccelli (tordi e pettirossi in prevalenza), cinghiali a cui guarda con una certa pietà e non con l’ostilità che in genere viene riservata a essi dagli agricoltori e dai cacciatori, mi viene in mente la mattanza dei cinghiali descritta da Nico Orengo in Islabonita (Einaudi, 2009) e infine l’anguilla, creatura d’elezione del bestiario montaliano e presente anche in Islabonita, a testimonianza del fatto che tra le fonti, i modelli e i punti di riferimento di Magliani ci sono grandi maestri come Cesare Pavese, Francesco Biamonti, Nico Orengo e Giuseppe Conte a cui è legato da un forte sentimento di amicizia e di riconoscenza per essere stato spronato e seguito da lui nei suoi primi incerti passi nel mondo della narrativa. E proprio Giuseppe Conte nella bella prefazione a Dal fondo della tana gli riconosce «entusiasmo, simpatia umana, perseveranza, fede nella scrittura e volontà di essere scrittore».
Il libro di poesie di Marino Magliani è impreziosito, inoltre, da alcuni bellissimi disegni a china (ritratti, strumenti rustici di lavoro, cani che poltriscono all’ombra, agglomerati di case, qualche nodoso ulivo o semplici ramoscelli) di Sergio “Ciacio” Biancheri, un pittore di Bordighera che ha avuto la possibilità di crescere e di formarsi tecnicamente all’Accademia G. Balbo e culturalmente in quella cerchia di intellettuali che viveva in Riviera negli anni cinquanta e gravitava intorno alla figura carismatica di Guido Seborga. Di lui Francesco Biamonti, che prima di dedicarsi alla narrativa aveva praticato con sensibilità e competenza la critica d’arte, ha detto: «Da fondali di alghe e grovigli, segni nervosamente tracciati su pianure di silenzio, giunge ora alle marine di solidificata malinconia. Mari oscuri, piste di tenebre che oltrepassano i crepuscoli e si convertono in chiare ragioni della memoria». E se tra i disegni di Sergio Biancheri che illustrano i versi di Marino Magliani non figurano marine, esala da essi l’odore del tempo in questa archeologia e attualità della memoria.