All'Università di Cassino
Vite di rimbalzo
La letteratura, in cinema e il calcio: è il tema di una giornata di studi accademici per trovare la relazione tra regole e caso nel gioco dello sport e in quello della vita. Anticipiamo la relazione introduttiva
Oggi, 31 ottobre, presso l’Università di Cassino si svolgerà una giornata di studio intitolata “Rincorrendo un goal attraverso cinema, canzoni, romanzi e suoi derivati”. I lavori (cui parteciperanno tra gli altri Maurizio Lupo, Gabriella Dionisi, Antonella Emina, Idamaria Fusco, Antonio Vivaldi e Isa Zoppi) saranno aperti da Nicola Bottiglieri con la relazione che qui anticipiamo.
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Se il gioco della palla si trova in tutte le culture del vecchio e nuovo mondo, dobbiamo ricordare che la palla di caucciù appartiene alle popolazioni americane, mentre quella fatta da una sfera di cuoio riempita di piume, sabbia o segatura viene dal mondo greco-romano. Il matrimonio fra il cuoio ed il caucciù, che in lingua quechua (Perù) significa legno che ride, è avvenuto dopo la scoperta dell’America, quando a partire dal settecento i naturalisti inglesi cominciarono ad importare questa materia vegetale che aveva il potere di rimbalzare. Da allora è stato usato per dare vitalità alle sfere di cuoio, leggerezza alle gomme delle automobili, velocità alle camere d’aria delle biciclette, ecc. È evidente la differenza fra la sfera di cuoio con camera d’aria di caucciù e quella riempito di sabbia o segatura. La palla di caucciù rimbalza e sembra avere vita propria, mentre la seconda, la sfera di cuoio riempita di segatura serve a fare solo lanci, quella che oggi è chiamata palla medicano. La palla che rimbalza rende il gioco imprevedibile e trasforma il pallone in un essere animato pieno di vita, mentre la palla piena di segatura è un oggetto inerte, la cui vitalità è molto circoscritta.
Le culture pre-colombine avevano capito che il pallone, proprio perché rotondo, simboleggiava il sole ma conoscendo le proprietà del caucciù che rimbalza e saltella in modo bizzarro credevano che dentro quell’oggetto vi fosse uno spirito o un dio burlone. Gli aztechi in Messico disputavano lunghissime partite, colpendo la palla in tutti i modi, con le braccia, con le anche, con i piedi perché il sole si svegliasse e riscaldasse di più la terra. Presso i Maya, in Guatemala, le partite venivano giocate soprattutto durante i solstizi e gli equinozi, ed a giocare con il sole non erano gli uomini ma gli dei stessi, rappresentati dai giocatori. La palla-sole era un dio capriccioso che gli altri dei dovevano ammansire, facendola passare dentro pietre forate, poste in alto nella metà del campo.
Presso i greci invece la palla aveva qualche cosa di razionale ma anche di indefinito. Non rimbalzava, ma chi lanciava sapeva bene dove andasse a finire secondo la forza che veniva impressa al braccio. Tuttavia se essa usciva fuori dal campo poteva succedere qualche cosa di imprevedibile. Il racconto dell’Odissea infatti nasce quando Nausicaa va a raccogliere la palla rotolata fuori dal campo di gioco e fuori dal campo trova Ulisse nudo nascosto fra i cespugli. Ulisse che ha fatto naufragio è un uomo che ha molte storie da raccontare: Nausicaa trova, grazie ad una palla perduta, il racconto dell’Odissea.
La palla che esce fuori dal recinto di gioco può diventare pericolosa in tutti i sensi. Per questo gli uomini hanno recintato i campi da gioco. Per dividere il razionale, il gioco con le sue regole, dall’irrazionale, l’imprevisto, lo sconosciuto, il racconto, il mistero. Lo stesso è successo con i calendari, che sono stati inventati per sottrarre il tempo degli uomini all’infinito, lo stesso è successo con le ricette di cucina, ideate per sottrarre al cibo i suoi veleni.
Potremmo dire che se nella palla degli uomini del mondo greco-romano prevale il calcolo, la razionalità dell’individuo o della squadra, nel mondo americano, al contrario, è importante l’imprevedibilità del rimbalzo, la follia di un oggetto che sembra dotato di vita propria.
Se la sfera di cuoio ha rimbalzi imprevedibili, anche i tifosi, quando siedono sugli spalti possono avere comportamenti imprevedibili. Non mi riferisco ai gesti violenti bensì ai comportamenti dei tifosi. Lo stadio è l’unico luogo della società dove è permesso urlare, dove le persone si travestono, si dipingono il volto, si stampano un tatuaggio sulla fronte, creano scenografie selvagge, scandiscono cori tribali. Ma lo stadio è anche teatro, dove gli attori recitano con i piedi ed il corpo, fornendo una esibizione a metà strada fra la danza, la recitazione e la lotta. Viene perciò da chiedersi cosa sia questo luogo così diverso da tutti gli altri! Dal punto di vista architettonico, esso è il raddoppiamento del teatro greco e siccome il dio protettore del teatro è Dioniso, ancora oggi nello stadio aleggia lo spirito dionisiaco. Chi era Dioniso? Era il dio dell’estasi, del vino, dell’ebbrezza e della liberazione dei sensi; rappresentava l’essenza del creato nel suo perenne e selvaggio fluire, lo spirito divino di una realtà smisurata, la frenetica corrente di vita che tutto pervade.
Infatti, nello stadio, in certi momenti del gioco, quando migliaia di persone sono un solo battito del cuore e la palla è proprio il cuore di quelle migliaia di persone, la tensione collettiva può far arrivare la coscienza ai livelli più profondi dell’irrazionale, dell’infantile, dell’inconscio. Il gol che segue quegli attimi di tensione estrema procura una soddisfazione, a volte così selvaggia che ci ricollega alle forze oscure della natura. Queste sensazioni acquistano una dimensione apocalittica sopratutto nella finale di un campionato mondiale: miliardi di persone seguono lo stesso evento e il pallone sembra proprio il sole che illumina la terra. Tutti sono così suggestionati da quella sfera di cuoio che il mondo intero -grazie alla televisione- diviene uno stadio enorme dove si gioca al teatro della vita. Cosa c’é di razionale in tutto questo?
Per questo gli intellettuali hanno fatto fatica ad innamorarsi del calcio. Non lo hanno amato perché non sapevano guardarlo. I pochi che ne hanno parlato spesso lo hanno identificato con la propria giovinezza (è il caso di Pasolini o di Penna) o come metafora della lotta della vita, (Albert Camus e il mito di Sisifo, per quanto il portiere lancia lontano la palla questa sempre a lui ritorna) ma anche parodia della guerra, è il caso del romanzo di Luigi Riva, L’ultimo rigore di Faruk, dove si racconta che la guerra che diede inizio alla dissoluzione della Jugoslavia sia iniziata il 30 giugno 1990 a Firenze quando Faruk capitano della Jugoslavia sbagliò il rigore contro l’Argentina, aprendo una rivalità etnica all’interno della squadra che si trasmise a tutto il paese, oppure come è il caso di Peter Handke, Prima del calcio di rigore, che vede la condizione dell’uomo è simile a quella del portiere in attesa del calcio di rigore.
La nostra riflessone potrebbe continuare chiedendoci quale linguaggio sia più vicino al mondo del calcio, se la letteratura, la radio, la televisione, il cinema oppure il giornalismo, ma su questo è chiamato ad esprimersi il nostro seminario.