Nicola Fano e Silvio Perrella
Sullo sfondo di Ponte Morandi

Se cadono i ponti

Riflessione a due voci sul valore simbolico della tragedia di Genova. In occasione dell'uscita del libro di Silvio Perrella "Da qui a lì. Ponti, scorci, preludi” dedicato a ciò che ci unisce (e a come questo valore possa andare in crisi). Il libro sarà presentato oggi, 26 settembre, a Roma, alle 18.30 alla libreria Ibs da Giorgio Amitrano e Giovanni Nucci

Caro Silvio Perrella, quando è caduto il Ponte di Genova stavo leggendo il tuo libro Da qui a lì. Ponti, scorci, preludi (italosvevo, 80 pagine, 12,5 Euro, in libreria da oggi settembre). Si tratta di una raccolta di racconti e riflessioni su un tema specifico: che cosa ci unisce? I ponti, dici, sono posti tra due estremi e li mettono in comunicazione. Due estremi anche diversi fra loro (fai l’esempio del ponte di Brooklyn che unisce l’eleganza un po’ autocompiaciuta di Manhattan e la sobrietà metà americana e metà europea di Brooklyn, appunto). Insomma, dall’incrocio fra la lettura di questo libro e quel terribile fatto di cronaca è nata l’idea di questa riflessione a due voci. Quando ho sentito la notizia di Ponte Morandi ho pensato che quella fosse (anche) la drammatica fotografia di un’Italia che perde le sue congiunzioni, un’Italia spaccata.

Hai ragione a parlare di un’Italia che perde le sue congiunzioni. Noi due siamo coetanei, essendo nati entrambi alla fine degli anni Cinquanta. Ci ricordiamo quindi per esperienza diretta che Genova era considerata, insieme a Torino e Milano, un lato del “triangolo industriale”. Da tempo, quel triangolo non esiste più. E Genova è proprio il lato che si è lesionato prima.
Credo che bisogna partire da lì per provare a ragionare su quel che è accaduto; anche se ragionare in questi momenti è maledettamente difficile.
Vengono prima il dolore la rabbia e l’amore. Sì, proprio l’amore.
Sento Genova una città sorella a Napoli, il luogo urbano dove ho scelto di vivere. Tutt’e due verticali, attraversate dalle su e giù delle funicolari, con il mare che determina un orizzonte metamorfico.
Basta cercare i versi anaforici e melodiosi che Giorgio Caproni dedicò alla “sua “ città a rinnovare l’amore per un organismo urbano così elegante, ma anche così manomesso.
Ricordiamoci che ogniqualvolta si arriva a Genova si devono fare i conti visivi con un viadotto che è ancora oggi l’equivalente di uno schiaffo. E che la separa per un bel tratto dal mare.
Nelle città verticali e di mare la manutenzione dei manufatti urbani deve essere costante, ancor più che altrove. Altrimenti, quel che succede a lasciarli da soli al lavorio incessante degli elementi è sotto gli occhi di tutti.
E purtroppo, come ormai capita sempre più spesso nel nostro paese, si lavora dopo le tragedie, in un vociare confuso e spesso malevolo che invoca “l’emergenza”. E nelle emergenze può succedere di tutto, e la prima cosa che succede è una sospensione della democrazia.
Ti dico queste cose bene sapendo che non bisogna mai confondere la realtà con l’immaginazione del mondo, anche se non possono non esserci rispecchiamenti segreti.
Il mio vuole essere un libro d’immaginazione, dove i ponti, come anche gli scorci e i preludi, sono immagini da interrogare. E sono anche suscitatori di racconti.
Sono affascinato dalla figura del ponte, perché mi sembra l’emblema della congiunzione. Allo stesso tempo bisogna sempre sapere che si tratta di una congiunzione fragile che non si può mai dare per scontata una volta per tutte.

Città verticali, dici: Napoli e Genova. C’è una canzone che parla di Genova città senza mare. E poi dici di quell’ingresso forzato tramite un ponte, un lungo viadotto. Ricordo che da bambino i viadotti, i cavalcavia, insomma i ponti stradali mi davano una emozione forte, non sempre piacevole: mi sentivo catapultato nella fantascienza, in uno spazio estraneo. Penso ai quadrifogli d’asfalto che ormai fanno parte di qualunque paesaggio periferico, ovunque. Ho imparato dopo a riconoscere meglio questo mio disagio: sono ponti gettati sul mondo tumultuoso per fare in fretta. Viceversa, per esperienza diretta, ti so un camminatore lento: non ti ci vedo a muoverti in fretta senza darti il tempo di guardare. E vivere.

Anche Napoli, come Genova, è stata descritta più volte come una città senza mare. Basti il ricordo del titolo ortesiano. Il mare, a ben pensarci, è il ponte dei ponti: in special modo il Mediterraneo.
Essere città di mare senza il mare significa dunque avere scontato solitudini storiche e avere un rapporto difficoltoso con la Storia.
Interruzioni, fratture, ombre e rimozioni connotano queste città che per altri versi invece hanno dalla loro la potenza conoscitiva della luce.
Tu vivi in una città che pullula di ponti che s’inarcano sopra un fiume venerando. Sono ponti molto diversi da quelli che da bambino ti trasmettevano il disagio che racconti. Ponti fatti per attraversare i secoli, non lesinando sui materiali e anzi spesso abbondando.
Quando vivo a Roma, nella città dove tu abiti, amo passare da una parte all’altra di questi ponti mettendo i piedi sulle loro pietre, osservando l’isola Tiberina che fa da spartifiume e le isole che si formano con i detriti sopra le quali si riposano gli uccelli. E quando, dopo un pioggia, i ponti sono raddoppiati dall’arcobaleno – il ponte naturale per eccellenza – mi sembra di vivere in una città inventata per l’istante di un battito di ciglia.
I ponti gettati sul mondo tumultuoso per fare in fretta, come tu dici, trasmettono disagio, certo. Hai perfettamente ragione.
E si tratta molto spesso di ponti autostradali, di raccordi, di viadotti; molto meno frequentemente di ponti pedonali.
Come sai, per me camminare è un modo di pensare. Mi piace andare “da qui a lì” anche e soprattutto se non conosco la meta o la dimentico preso dalle digressioni del momento.
D’altronde proprio tu hai pubblicato un mio testo che s’intitola “Le parole ai piedi”. Ecco, è proprio il caso di dire, sfidando l’ironia, che scrivo con i piedi.

Nel tuo libro parli (anche) di un racconto di Kafka in cui l’autore scrive: «Una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare». E commenti: «Un ponte che crolla motu proprio, che ponte è?». Dopo la tragedia di Genova, hai cercato di darti una risposta?

È proprio dal racconto di Kafka da te citato che è partita la mia ricerca. Lo interrogo da anni. Si tratta di poche righe; il ponte vi assume le fattezze di una persona: le mani di qua, i piedi di là. I camminanti passano sul suo corpo, finché per il dolore quest’individuo decide di lasciare la presa, precipitando lui con tutti gli altri.
Leggendolo, pensavo al fatto che i primi manufatti architettonici che vengono bombardati nelle guerre sono i ponti. Pensa a Mostar.
E sono anche i primi che si prova a ricostruire, finito il guerreggiamento.
I ponti attirano la rabbia e l’invidia di chi non ama le congiunzioni.
Quel che è successo a Genova riguarda un altro tipo di guerra, che potremmo definire la guerra dell’incuria. È un combattimento subdolo, invisibile, che purtroppo si sposa anche con l’elemento imponderabile che sempre si annida in ogni oggetto costruito.
Pensa al punto cieco dei parabrezza delle automobili, toccato il quale per caso va tutto in frantumi.
Questo significa che dovremmo allo stesso tempo sapere fare storia di quel che avviene, individuando i responsabili, senza però cercare i soliti capri espiatori. E insieme dovremmo imparare a convivere con la possibilità dell’errore.
Ne compiamo di continuo; l’importante è aver il tempo e la capacità di correggerli.
Altrimenti si fa largo la psicosi che ci fa allontanare da ogni luogo di congiunzione e di comunità. E questo proprio non possiamo permettercelo, anche se è proprio quel che sta avvenendo.
Chissà per quanto tempo, caro Nicola, saremo chiamati a parlare di ponti. Poi dimenticheremo tutto. Fino alla prossima tragedia. In Italia si parla all’infinito di tragedia perché ci manca il codice tragico.
Le vere tragedie chiedono il silenzio della pietà.
A noi manca il silenzio civile. Ci sovrabbonda invece il silenzio come omissione.

Non ci riesce più convivere con gli errori: hai ragione. Lo dico anche per noi. Forse anche noi che non riusciamo a convivere con gli errori degli altri; a sostenere quella rabbia incontenibile che ci prende di fronte alle manchevolezze di chi adesso governa in nome dell’ignoranza. Penso a come l’odio sia il sentimento sociale prevalente e, di contro, come la solidarietà sia un valore perdente, inattuale, infruttuoso. Dici che dovremmo scegliere il silenzio civile, noi che stiamo dall’altro lato, noi che ancora proviamo a vedere la complessità delle cose? Te lo chiedo davvero, non è retorica: proprio non so che fare.

Caro Nicola, io non so se noi – quelli della nostra generazione, ad esempio –, stiamo da un altro lato. Certo, vedere e provare a comprendere la complessità delle cose ci sta a cuore.
Nel primo libro di Italo Calvino c’è un dialogo tra due giovani partigiani che fanno da vedetta per sventare un attacco dei tedeschi. E l’uno chiede all’altro in cosa sono diversi loro da quelli che stanno risalendo i tornanti e contro i quali si batteranno.
La risposta è: noi siamo dalla parte giusta della Storia. Mi chiedo se si possa davvero stare dalla parte giusta della Storia o se piuttosto non si stia al mondo sperimentando ad ogni momento un equilibrio instabile che mira alla verità sapendo che non si riuscirà mai a possederla.
Primo Levi ci ha dato uno strumento formidabile di analisi della società umana coniando la definizione di “zona grigia”.
Devo confessarti che immagino questa zona come un luogo purgatoriale. Lo immagino come un luogo laico, dove il tempo agisce incessantemente come il mare: il purgatorio dei viventi. Credo che sia in un luogo simile che viviamo.
Tu dici: davanti al degrado dell’oggi non so più che fare. Non lo so neanche io. So solo che in certi casi un poco di silenzio civile ci farebbe bene. Diamo troppa importanza a cose e a persone che non ne hanno per nulla.
Immergiamole nel silenzio.
«Assenza del silenzio intimo – in Italia. L’italiano manca forse dell’intimità del silenzio. L’italiano moderno?». È un’annotazione di Antonio Delfini tratta dai suoi Diari, che ho citata nel mio libro sugli “Addii”, dedicato a quella generazione dei nostri antenati che i ponti sapeva di sicuro farli meglio di noi.
Mi torna in mente dialogando con te, e ne sento come un’eco leopardiana.

I ponti, nelle tue narrazioni (Londra, New York), sono anche il segno di una comunità che si aggiorna: città che si dotano di infrastrutture che rappresentano il loro futuro. Così era anche per il viadotto crollato a Genova: una testimonianza del boom economico ma, per come è tragicamente venuto giù, anche il timbro di un paese corrotto, facilone… (un altro segno di come la metafora che hai scelto come linea guida del tuo libro fosse giusta).

Nel libro racconto che quando inaugurarono il Millennium Bridge di Londra si accorsero che c’era qualcosa che non andava. Emetteva un suono misterioso. E derivava da uno sbaglio di calcolo dei contrappesi. Insomma, era stato commesso un errore. Che con il tempo fu individuato e riparato. E il ponte – si tratta di un ponte esclusivamente pedonale – è lì che svolge la sua funzione. E chiunque vada a visitare la Tate Modern lo percorre.
Il ponte di Calatrava a Venezia è monitorato; anche lì l’errore deve aver agito.
Sono due esempi del fatto che anche i migliori possono sbagliare i ponti.
Sono tempi difficili, i nostri, per i ponti; e lo sono ancora di più per i pontifex.
Il legame sociale si slabbra sempre di più; e si adopera la paura come strumento politico.
Si tratta di una paura fabbricata, ben diversa da quella naturale. La paura fabbricata desertifica lo spazio tra le persone. Mentre la paura naturale chiama alla relazione. Ci siamo formati come individui proprio perché siamo riusciti a entrare in contatto con le nostre paure naturali, si tratti del buio, del mare, o di un cane che ci ringhia contro. Le paure fabbricate, invece, di spodestano da noi stessi.
Sai, ho scritto un racconto su questo tema, che uscirà a ottobre. Se vorrai, dunque, ne riparleremo presto.
Quel che mi è parso di capire, conversando oggi con te, è che tra i ponti e la paura c’è un rapporto. E purtroppo Genova è stata costretta a sperimentarlo.

Dopo Genova, un altro segnale inquietante è venuto da Roma dove, nel cuore della città, è venuto giù il tetto di una chiesa antica appena restaurata. M’è venuto da pensare a una rivolta degli oggetti o, meglio, della storia contro una società che la calpesta. Ma forse è un’esagerazione…

Gli oggetti si rivoltano perché non gli prestiamo attenzione e gli lesiniamo le cure delle quale abbisognano.
Ho una passione per le pietre. Mi sembra che abbiano in serbo per noi storie che le persone non sanno più raccontare. A volte gli poggio l’orecchio sopra e spero di coglierne le loro confabulazioni solitarie.
D’altronde il mio “Doppio scatto” potrebbe anche, parafrasando Ruskin, intitolarsi “Le pietre di Napoli”.

Infine, colgo l’occasione per farti una domanda, come dire?, più personale: generazionale. I ponti si costruiscono anche con il passato; con i maestri. Noi – s’è detto – abbiamo la stessa età ma formazioni diverse: ne parlai quando recensii per Succedeoggi il tuo bellissimo libro Addii, fischi nel buio, cenni, una sorta di catalogo di maestri. Io sono cresciuto a suon di Sciascia, Vittorini, Pavese, Eduardo De Filippo, il tuo Italo Calvino (nostro unico punto di contatto, in origine): insomma, gli scrittori laureati dall’establishment del Pci al quale facevo riferimento. Ho usato ponti già costruiti da altri. Anche se, a pensarci meglio, di mio ci misi Ettore Petrolini, e infatti sotto quel segno – quello della comicità popolare italiana – s’è avviata la mia saggistica. Tu, invece, hai trovato da solo un’altra strada: La Capria, Parise, la Ortese… Ho sempre un po’ mitizzato questo tuo non accontentarti degli schemi critici prefabbricati, questo tuo gettare un ponte dove non c’era.

Beh, il tuo Petrolini terremota e vivifica tutto il quadro. E anche il tuo amore per la cultura popolare napoletana, penso ai fratelli Maggio, va ben oltre gli scrittori “laureati” del Pci.
Va detto che la nostra conoscenza risale al periodo in cui entrambi scrivevamo per l’Unità (tu come redattore, io come collaboratore). E dopo venne la bellissima esperienza di “Diario”, alla quale ho potuto partecipare per merito tuo e di Anna Maria Guadagni.
Quanto mancano, oggi, spazi come quelli! E d’altronde succedeoggi nasce proprio sulle macerie di quelle testate.
Per quel che riguarda il mio rapporto con gli “antenati”, come li chiamo nel libro cui fai riferimento, non saprei dirti se non che per me era necessario gettare verso di loro un ponte umano innanzitutto.
Non mi bastava leggere i loro libri; sentivo la necessità di osservare i loro corpi, di ascoltare le loro voci nel flusso della quotidianità.
E quanto è stato possibile, così ho provato a fare.

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