Pier Mario Fasanotti
Un ritratto (quasi) inedito

Lenin & Gor’kij

L'amicizia, l'esilio, l'apprendistato da pescatore a Capri e quello politico a Londra: Lenin prima della rivoluzione d'ottobre nelle parole di un testimone (diretto) d'eccezione, Maksim Gor’kij

Capita spessissimo che il profilo privato di certi personaggi sia marcatamente diverso rispetto a quello pubblico. A tal punto che, a proposito soprattutto di alcuni artisti, molti affermano che sarebbe stato meglio che l’incontro, o la conoscenza più approfondita, non sia mai avvenuto. Dal patrimonio iconografico di Vladimir Lenin si evince la personalità di un uomo mai sorridente, altero, duro, a volte aspro. Del capo del bolscevismo russo fu assiduo amico lo scrittore Maksim Gor’kij, diventato poi il rappresentante più noto del cosiddetto realismo socialista. Gor’kij incontrò il leader russo a Pietroburgo nel 1905, lo seguì a Londra (per il congresso dei socialdemocratici) e lo ospitò fino al 1913 a Capri (Lenin morì nel ’24). E ne fece un ritratto, successivamente (1931) corretto. È intitolato Lenin, un uomo (Sellerio, 158 pag., 13 euro). La prima edizione integrale risale al 1927. È una miscellanea di ricordi, “scattati“ in varie località.

È curioso notare quante volte Lenin appaia come uomo allegro se non addirittura spassoso, certamente capace di essere tagliente ma sostanzialmente conciliante anche con certi oppositori, a patto che di questi riconoscesse l’intelligenza e la distanza dal brutale tradimento. Nel 1905 Gor’kij entrò nella redazione della rivista Demos (aperta a Ginevra). L’incontro, «veloce e piacevole», avvenne a Pietroburgo ma lo scrittore non ne conservò un ricordo entusiasmante. Forse perché si sentì costretto in qualche modo a raccontare in «modo febbrile» una manifestazione di massa. Di fronte a lui, un Lenin particolarmente attento. Secondo la testimonianza della moglie del narratore e drammaturgo, già famoso per Bozzetti e Racconti, «Lenin sorrideva piacevolmente, mentre il marito, era fortemente imbarazzato e cercava, come sempre in questi casi, di parlare in maniera particolarmente profonda, con voce di basso». I rapporti si sgelarono in poco tempo e divennero sempre più fluidi. Oltretutto, Gor’kij era molto impegnato nella stesura del romanzo La madre, che piacque molto al leader dal volto mongolico e dai piccoli occhi asiatici. Il 20 ottobre 1906 Lenin venne accolto «trionfalmente a Capri», dove restò sette anni.

Annotò Gor’kij (nella foto): «Mi aspettavo che Lenin non fosse così. Non tutto sapevo di lui. Parlò inciampando su alcune lettere, infilò le mani più o meno sotto le ascelle, disinvolto. E in generale, tutto in lui era molto semplice, non aveva proprio l’aria del vozd (prima donna, snob, più o meno)». Lenin, oltreché affabile, si preoccupava molto per la salute dell’amico. Lavorava «in maniera impressionante», non beveva non fumava eppure trovava il tempo per osservare i pescatori dell’isola campana coi quali cercava di intendersi con poche parole e soprattutto coi gesti. Tra quella gente semplice ispirava simpatia e confidenza.

Gor’kij ebbe a osservare che il suo sguardo esercitava una forte dose di magnetismo. Quando lui rideva, ridevano anche gli altri. Un buonumore contagioso: «il suo riso era sincero, l’uomo era perfettamente capace di vedere l’impaccio della stupidità umana e le acrobazie dell’ingegno…era in grado di godere anche della puerile ingenuità dei semplici di cuore». Un vecchio pescatore commentò: «In questo modo ridono solo le persone oneste». Lenin era molto curioso a proposito della pesca e un giorno imparò a pescare «il pesce con le dita, con il filo da pesca e senza canna». I marinai gli spiegarono che bisognava tirare quando il dito sentiva il filo tremare: «Così, drin-drin. Capisci?». Alla prima impresa riuscita urlò eccitato «drin-drin». Da quel giorno lo chiamarono «il signor Drin-Drin».

Capri non fu un luogo di reclusione e nemmeno di isolamento. Gor’kij e Lenin andarono un giorno a Londra per una serata teatrale e per incontrare alcuni politici e intellettuali. Tra i suoi commenti: «L’Europa è più povera di noi in quanto a gente di talento».

Seduto al tavolo del suo ufficio, scriveva velocemente e parlava senza staccare la penna dal foglio… «buongiorno, come va la salute? Ora finisco… qui abbiamo un compagno in provincia, si annoia, probabilmente è stanco. Bisogna sostenerlo. L’umore non è cosa da poco». Passava poi a parlare di Tolstoj. «Sorridendo, gli occhi socchiusi, si distese con gusto sulla poltrona e abbassando la voce continuò velocemente: “Che colosso, eh? Un uomo eccezionale… questo è un vero artista, mio caro… chi in Europa può essere messo a paragone con lui?”». Gor’kij riferisce che si rispose da solo: nessuno.

Il rivoluzionario e lo scrittore non erano propriamente in sintonia politica, anche se uniti dall’avversione per il ceto dominante e predatorio. Questa è una delle ragioni per cui Gor’kij “rimpastò“ fino al ’31 il profilo di Lenin. Feconde furono le conversazioni. Riferisce il narratore: «Mi capitava spesso di parlare con Lenin della brutalità della tattica e della quotidianità della rivoluzione. “Che volete?” chiedeva stupito e arrabbiato. “È forse possibile lasciare l’umanità in questa lotta la cui ferocia non si era mai vista prima? Dov’è qui il posto per la bontà d’animo e la nobiltà di cuore? E’ l’Europa che ci blocca, siamo stati privati del tanto atteso aiuto del proletariato europeo…Non abbiamo il diritto di lottare, di opporci? Scusate, ma mica siamo degli stupidi. Lo sappiamo: ciò che vogliamo, non può farlo nessuno tranne noi”».

E Lenin diceva ancora: «Tra di noi, ci sono coloro che effettivamente tradiscono, ingannano più spesso per vigliaccheria, per paura di confondersi, nel timore che l’amata teoria entri in sofferenza nello scontro con la pratica. Noi non abbiamo paura di questo. La teoria, l’ipotesi per noi non è qualcosa di sacro, per noi è uno strumento di lavoro». Circolava a Pietroburgo in quegli anni un racconto a proposito di una donna bella e di ex alto lignaggio che non sopportava più l’indigenza, e per questo aveva deciso di annegarsi nella Neva. I suoi quattro cani, subodorando il proponimento, le corsero dietro abbaiando e le evitarono il suicidio. È Gor’kij a raccontare questa storia a Lenin, il quale dapprima disse: «Se pure è una storia inventata, non è male. Scherzi della rivoluzione». Poco dopo aggiunge in modo preoccupato: «Sì, a queste persone le cose sono andate male, la storia è una madre inflessibile, e quando deve vendicarsi, non se ne vergogna. Che dire? Queste persone stanno male. I più scaltri capiscono di essere stati strappati dalle radici e che non potranno di nuovo piantarsi nella terra. Ma il trapianto, il passaggio in Europa non li renderà contenti. Lì non si ambienteranno».

Il leader comunista non si illuse mai delle buone maniere, per così dire, dei rivoluzionari, molti dei quali profanarono volgarmente la bellezza del Palazzo d’Inverno della famiglia Romanov. E confidò all’amico scrittore: «La volontà di rovinare cose di eccezionale bellezza ha sempre la medesima motivazione della tendenza vile alla profanazione di qualsiasi cosa l’uomo faccia di originale. Tutto ciò che è originale è percepito dagli altri come un intralcio a condurre la vita come essi la vogliono. Le persone aspirano, ma ciò a cui aspirano non è il cambiamento radicale delle proprie abitudini sociali, ma solamente il loro ampliamento. La principale lamentela e recriminazione della maggioranza è: non impediteci di vivere come siamo abituati a fare». E Gor’kij, in estrema sintesi, scrisse di lui: «Un onesto intellettuale rivoluzionario russo che crede sinceramente nella possibilità della giustizia in terra».

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