Al Festivaletteratura di Mantova
La resistenza dei libri
Il bilancio della kermesse dei libri è sicuramente positivo, in termini di numeri; ma i sintomi dell'inciviltà, dell'imbarbarimento delle attese sociali sono arrivati anche qui. E non è un bel segno
Centoventimila spettatori in cinque giorni di programmazione. Per oltre metà paganti. Più o meno, gli stessi delle ultime edizioni. Quasi tre volte gli abitanti di questa città: si conferma che il richiamo del festival della Letteratura di Mantova è fenomeno nazionale che continua a superare i confini della Regione. Il responso dei numeri è che questa anomala festa, consacrata a una pratica – l’acquisto e la lettura dei libri, sicuramente in crisi e data in via d’estinzione – ha tenuto botta, difeso il suo appeal, mantenuto il rapporto con i pubblici dei lettori che chiama a convegno. Insomma, la prima sensazione è di conforto perché grazie a questa platea partecipe e ingorda qui a Mantova si è respirata ancora una volta un’aria diversa. Migliore. Più sana e leggera di quella avvelenata da timori e proclami fuori scala, che domina e incupisce oggi il paese.
Circolano parole più rassicuranti, meno banali da quelle che intasano i talk show televisivi. E mescolandosi alla folla, migliaia di persone che sciamano da un evento all’altro e si incolonnano in fila per conquistare gli appuntamenti più gettonati, ti sembra davvero di appartenere ad una comunità e non a quel popolo tracotante e rancoroso che urla e si conta sui social, inebriato dall’essersi sottratto al suo statuto imperfetto di maggioranza silenziosa.
Un’isola di resistenza. Un’ultima spiaggia che galleggia la sua anomala calma inquieta nell’occhio del ciclone o forse così ai margini da non dover temere l’onda d’urto del maremoto. Già, che conforto quegli applausi che in ognuna o quasi delle platee riunite in una ventina di luoghi, teatri, chiese, musei, monumenti, risuonano ogni volta che l’invitato di turno, scrittore o intervistatore, fa il nome di Salvini, cita, prendendone le distanze, le sue misure anti-immigrati, le sue sparate contro i professoroni sputasentenze. Eppure il rapporto di complicità e la rassicurante condivisione di quei codici di appartenenza che teneva insieme quelle folle in transito si è sensibilmente allentato. Sono aumentati i commenti pieni di «sì, ma…» che catturi tra i capannelli di spettatori all’uscita. Difficile dire se è rassegnazione o una presa di distanze: più preoccupante, perché chiama in causa un senso della realtà che la letteratura e la lettura dovrebbero capovolgere, insegnare a smontare e maneggiare per altri versi.
Mi ha colpito come mai prima la prudenza da divi con cui molti scrittori chiamati a dar spettacolo, i più furbi, quelli che non si sbilanciano mai – sono tanti – sembrano recitare la parte: una battuta poco impegnativa per appagare il tifo da curva e via. E non è stato sempre un grande spettacolo, molto al di sotto delle attese di chi li ascolta, quello che molti autori e protagonisti dell’industria del libro ingaggiati dagli organizzatori in varie vesti hanno dato di sé, qui a Mantova. Accarezzando e ammorbidendo i problemi, dirottandoli su altre piste, precipitando le parole in un chiacchericcio modano sciapo, inutile, equidistante.
Sono i difetti che il sociologo Domenico De Masi, in uno degli incontri più intriganti, ha rinfacciato all’intellighenzia che sta amministrando senza un sussulto di rivolta e di indignazione, di rielaborazione, analisi, proposta, la brutta fase di transizione che l’Italia e l’intero Occidente stanno attraversando. Il potere politico e i delicati congegni della democrazia scalzati dal trionfo del potere finanziario e dalla tecnologia delle macchine; la dialettica del conflitto sostituita dall’arroganza dei proclami e dalla semplificazione delle parole d’ordine ad uso di una truppa di consenzienti che scambia per idee l’irrazionalità delle proprie paure. Insomma, una sorta di precipitare inesorabile verso il fascismo, facilmente dimostrabile se si allineano – come ha ben fatto De Masi – le testimonianze delle progressive mutazioni che hanno portato Mussolini al potere, e il paese nel baratro delle misure razziali e della guerra.
Come uscirne, che fare? De Masi invita gli intellettuali più onesti a fare il loro dovere, dando senso al titolo che li identifica come tali. Se la società postindustriale e i monopoli della Rete hanno vanificato e reso inutilizzabili i modelli di analisi sociale e democrazia del passato, compito degli studiosi e di chi possiede chiavi di conoscenza e di saggezza è di elaborane di nuovi. Siamo nella merda, conclude, ma ancora ci credo: è la parola d’ordine che deve guidarci. Il pubblico applaude. Ma tra quelli che alzano la mano per una domanda c’è un signore che obietta: «Belle parole, perché no. Ma come tenerne conto nel quotidiano se poi le oscillazioni della Borsa ti alzano il mutuo e ti lasciano meno soldi per tirare avanti?».
Sì, c’è un pericolo di ritorno al fascismo, ammette il giornalista Tim Marshall (suo I 15 muri che dividono il mondo) le politiche di austerità sommate ai movimenti migratori erodono le certezze, fanno paura. E «dovrebbero trovare ascolto, altrimenti le destre cresceranno. Per fermare le migrazioni non c’è che costruire laggiù condizioni di vita possibili. Pagare mazzette a governi dittatoriali rafforzerà le dittature e non fermerà i flussi. La guardia costiera libica è una gang, non un corpo militare. Apriamo un dibattito onesto e franco. E manteniamo nelle scelte un po’ di umanità».
C’è poi il rito sovrano con cui la maggioranza del pubblico partecipa a questo festival, privilegiando nelle sue scelte più che il talento, la fama. Una sorte di diffusissima sindrome da san Tommaso: puoi veder mille volte uno scrittore o un personaggio in tv, puoi persino aver letto qualche suo libro o qualche recensione, ma solo quando si materializza al tocco diretto del tuo sguardo puoi essere certo che esiste, assumere come certificato autentico quel che dice o scrive. Il condividere le sue idee è in fondo superfluo.
E infine c’è l’imprevedibile scintilla che può far decollare o meno uno spettacolo in presa diretta come questa. Un gioco di coinvolgimento che non dipende solo dalla forza dei temi trattati ma dalla capacità di metterla in moto, tradurla in interventi illuminanti. Quante occasioni sprecate, invece, in questi giorni sovraccarichi di eventi. La presenza di una scrittrice arguta, di gran piglio e umorismo come la giallista catalana Alicia Jmenez Bartlett, mortificata da domande e battute di superficie. Oppure le personalità intrigante e pragmatica di un autore come Patrick McGratt, viso rubizzo da bevitore appagato, soffocata da una linea di domande elaborate senza vera convinzione da un intervistatore doc come Carlo Lucarelli, che lo incasellava in un territorio, quello della Follia, tema e titolo del suo primo romanzo, dal quale la sua scrittura ha cominciato ad allonanarsi.
In realtà, a mio avviso, il criterio di valutazione più giusto per misurare il successo vero di ogni evento dovrebbe partire non dal nome, dal blasone o dal richiamo del titolo in locandina, ma dalla presa delle parole, degli approcci inediti, dagli sguardi sul mondo che sia distillare e imprimerci dentro. La testimonianza di uno sciamano brasiliano che evoca l’universo sconosciuto di regole e ideali della sua tribù, la conferenza di una scrittrice che ha raccontato in un libro la storia delle Sirene, l’esperienza di una scrittrice bengalese e lingua inglese che, innamorata dell’Italia, ha deciso di comporre in italiano i suoi ultimi lavori perché possono fornire trincee di resistenza e contrattacco contro i disvalori della destra montante molto più efficaci degli scontati tormentoni antiSalvini, antiCinquestelle o antiTrump. Guai se l’ansia di riconferme e il gradimento superficiale dell’usato sicuro che è gusto dominante di qualunque pubblico di massa diventasse la bussola privilegiata di questo festival.
Un festival che forse comincia con i suoi 22 anni di età – tanti per una rassegna di questo tipo, ad accusare i primi sintomi della vecchiaia. Chissà, magari basterebbe prendere esempio da uno degli oratori più incisivi di questa edizione, Enzo Bianchi, il monaco fondatore della comunità di Bose. E dalla regola che si è dato per affrontare l’ultimo capitolo della sua esistenza e i suoi 75 logoranti anni alle spalle: non affannarsi ad aggiungere giorni alla vita, ma vita ai giorni.