Un nuovo spazio culturale a Roma
Fantasma Farinacci
Con una fallimentare rassegna di performance selezionate dal Maxxi, apre Villa Farinacci. Un luogo della storia e della (cattiva) memoria del fascismo. Quello che i più si impegnano a "normalizzare"
Riapre dopo venti anni Villa Farinacci a Roma, una palazzina anni quaranta nel cuore di un parco che dà respiro all’intero quartiere di Monte Sacro. E che la gente della zona ha ribattezzato la Torre, per via di quello stretto ma imponente bastione, invenzione di un architetto razionalista d’epoca, Lorenzo Chiaraviglio, che, aggiunto come una quinta monumentale al primo corpo di fabbrica, domina la facciata e svetta come un’insegna. Un restauro coi fiocchi che ha restituito all’edificio lo smalto perduto e lo ha attrezzato come spazio pubblico. Evento che il Quarto Municipio ha voluto celebrare con un festival inaugurale che si protrarrà fino al 30 settembre. E che ha sigillato con un cartellone d’arte contemporanea, sul quale ha coinvolto un museo prestigioso come il Maxxi, che ha lanciato un bando ad hoc rivolto a curatori e autori under 35. E poi scelto un progetto, presentato da Giulia Gelmini, una curatrice bergamasca in carriera, che chiama in passerella tre nomi pescati nella galassia dei saranno famosi.
Sulla carta, una buona mossa per rompere il muro d’indifferenza di un quartiere dormitorio, povero di iniziative e di spazi. E invece un’occasione buttata al vento. Perché tra i tanti richiami messi in campo per l’inaugurazione, quello confezionato dal Maxxi ha clamorosamente fallito l’obiettivo. Un fiasco di cui sono stato testimone, partecipando prima alla conferenza di presentazione e poi al vernissage di sabato scorso.
Spettri: è il titolo con cui il cast targato Maxxi ha voluto battezzare i tre interventi, che erano il pezzo forte del programma. Prima sala al piano ammezzato. Attorno ad un tavolino Andrea Magnani, 35 anni, la prima autrice in locandina, siede ai lati di un tavolo dove ha raccolto altre quattro ragazze. Amiche?, visitatrici?, e perché solo donne? Non si sa. Sono comunque le partecipanti a un gioco di ruolo su cui ruota l’intera operazione: prima una sorta di confessione che serve ad ognuna per definire la propria personalità che definisce anche la posizione che occuperanno su un tabellone che viene loro consegnato e le altre scelte con cui proseguiranno il cammino, rapportandosi al luogo che le ospita, evocato dalla conduttrice. Il pubblico segue alle loro spalle, senza capire. Difficile interpretare e cogliere il filo di quel mormorio a bassa voce, di quei fogli spiegazzati che hanno davanti. Specie per una platea in transito, poco complice e poco paziente. Un’opera d’arte di relazione, la definisce Giulia Gelmini, artefice di questo cast. In realtà non è che un esperimento di animazione che ignora o trascura ogni regola d’intrattenimento.
Ancora più criptico e algido il secondo lavoro, condotto dal pesarese Enrico Boccoletti, che in un’altra sala si agita e si accuccia in preda a chissà quale ansia su un materasso, attraversato da lampi di colore rosso che disegnano con i led frecce e traiettorie, mentre quattro altoparlanti riversano addosso a lui e agli spettatori stipati in piedi nella stanza un frastuono di frasi e parole deformate da un pessimo sonoro. L’autore spiega di essersi ispirato a una pièce di Beckett e alla coreografia di una celebre ballerina e che le voci fuori campo incarnano i quattro istinti dell’uomo, dialogano di morte, amore, paura, dolore. Una performance d’arte? Ma perché non chiamarla per quello che è: una prova di teatro sovraccarica di ambizioni e mal calibrata; scontati i contorcimenti dell’attore, senza appeal la scenografia.
E infine il terzo lavoro, il più tecnologico, firmato da un gruppo di creativi, il collettivo Ditto, nato due anni fa – spiega un comunicato – «con l’intento di creare un dialogo fluido tra differenti ricerche da ibridare in un’unica individualità in una tensione generale verso l’accelerazione delle immagini che si trasformano in materia sedimentata». Che fanno? Hanno messo a punto un congegno che capta e trasforma in colori bande di immagini e di sonoro. Per godersi lo spettacolo hanno apparecchiato tre panche metalliche e oblunghe sulle cui fiancate scorre un mini video che è il risultato dell’operazione multimediale. Sono immagini in bianco e nero della villa che lasciano spazio su un lato ad una sbiadita colonna di colori. Tutto qui? Sì, tutto qui. Probabile che quelli che li hanno selezionati, accantonando altri quaranta progetti alternativi, non abbiano neppure visto l’istallazione in opera. E si siano fidati della ragnatela di oscure intenzioni enunciate dagli autori. L’illustrazione del percorso in molti lavori contemporanei sostituisce l’opera.
Uno spettro insomma, come prometteva il titolo del programma che inspiegabilmente il Maxxi ha approvato e, con la spinta del proprio marchio di qualità, fatto finanziare. Curiosamente inseguendo i fantasmi della propria autoreferenzialità, gli autori coinvolti hanno finito per ignorare il vero grande fantasma evocato da questa dimora. Sì, proprio lui, Roberto Farinacci (1892-1945), uno dei padri fondatori del fascismo di cui arrivò a contendere la guida persino a Mussolini: una inarrestabile ascesa che ne ripercorre fino alla Marcia su Roma tutte le prime tappe. Il più filonazista. Una biografia da romanzo a tinte forti in cui Farinacci recita mille parti: il duro e lo sciupafemmine, il picchiatore e il soldato scapestrato che per puro esibizionismo nella guerra d’Africa si lascia mutilare dalla bomba a mano con cui si trastullava nelle retrovie, l’avventuriero e l’abile impresario di se stesso, capace di trasformare in danaro sonante ogni incarico e ogni impresa. Quando, caduta Salò, i partigiani che poi lo fucilarono lo intercettarono in fuga sulle colline di Varese, trovarono nella sua auto otto valigie piene di gioielli. E poi l’abile speculatore immobiliare che investiva sul mattone, sfruttando il suo prestigio per orientarne e deviarne il corso. Da una speculazione nasce anche questa villa sulla Nomentana: un casale agricolo poi trasformato grazie ai suoi appoggi in una lussuosa residenza che probabilmente Farinacci non ha mai abitato.
Troppo facile, troppo scontato usarlo come filo conduttore, richiamarlo in scena per esemplificare il valore della Storia come fonte inesauribile di narrazioni? Ma un vero artista non dovrebbe essere capace di distillare idee e invenzioni anche dal punto di partenza dell’ovvio e del banale? E se invece la loro fosse solo una maschera snob per camuffare la voglia, comune a molti creativi della stessa generazione, di evitare di schierarsi, non si sa mai con queste destre al potere e questo fascismo di ritorno ormai sdoganato?
Per fortuna, a colmare questo vuoto ha provveduto un altro gruppo, ”Zone d’intersezione positiva”, scelto con lo stesso bando per rimpolpare la festa. Una cabina di regia che per dare un senso al coinvolgimento del pubblico del quartiere, ha fornito ai visitatori delle cuffie parlanti, che ripercorrevano passo dopo passo la storia della villa e del suo proprietario, guidandoli negli ambienti della casa e del parco. Insomma, questo progetto ha interpretato con meno presunzione e meno sussiego questo ruolo di organizzatori e animatori con altri eventi più semplici e coinvolgenti. Come il banchetto in cui a turno tre scrittori non proprio di grido ma già in carriera si alternavano a raccogliere i racconti di vita degli abitanti dei palazzi vicini per poi trasformarli in testi da diffondere in fotocopia o leggere agli altri visitatori.
Prove generali del futuro di villa Farinacci, ancora appeso alle vaghe idee d’indirizzo dei politici del municipio, che hanno manifestato l’intenzione di farne un centro culturale polivalente, ma non sanno come e con quali forze farne un luogo vivo di convivenza ma anche di conflitto.