Ristampato “Autunno tedesco”
Storie di ordinaria disumanità
Colpisce l’attualità del resoconto di Stig Dagermann sulla Germania nell'immediato dopoguerra. Le atroci descrizioni delle condizioni di vita della gente accendono interrogativi sulla condotta dei vincitori non poi tanto dissimile da quella dei soldati tedeschi nei territori occupati
La ristampa di Autunno tedesco (Iperborea, 160 pagine, 16 euro) è oltremodo significativa. Al di là delle indiscusse qualità di Stig Dagermann che emergono vivissime da questo che doveva essere una sorta di resoconto della Germania nell’immediato dopoguerra, il libro è particolarmente attuale per le tematiche che affronta. Il giovanissimo scrittore, appena ventitreenne, si reca, come moltissimi altri giornalisti, nella Germania appena uscita da una guerra sconvolgente nelle sue conseguenze non solo per le altre popolazioni ma anche per lo stesso popolo tedesco. Dagerman non si limita a dare un resoconto superficiale o a esprimere un giudizio, che non può che essere estremamente negativo, sui tedeschi, ma va in mezzo agli sfollati, vive accanto a loro, in mezzo a realtà agghiaccianti.
Polemizzando con chi usa il termine “indescrivibile”, osserva: «Se si vuole le si può descrivere in modo assolutamente preciso, le si può descrivere così: chi sta nell’acqua, davanti alla stufa, lascia le patate al loro destino e va verso il letto con i tre bambini che tossiscono, ordinando loro di andarsene subito a scuola. C’è fumo, fa freddo e si ha fame in questa cantina, e i bambini, che hanno dormito completamente vestiti, mettono i piedi nell’acqua che raggiunge quasi l’orlo delle scarpe rotte, attraversano il corridoio buio dove c’è gente che dorme, salgono la scala buia dove c’è gente che dorme, poi escono nel freddo e umido autunno tedesco. Ci vogliono due ore prima che la scuola apra, e gli insegnanti parlano ai visitatori stranieri dell’inumanità di quei genitori che spediscono i propri figli sulla strada. Ma si potrebbe discutere con tali insegnanti su cosa significhi umanità in questo caso. L’umanità di questi genitori consiste nel cacciar via i bambini dall’acqua di casa alla pioggia fuori casa, dall’umidità malsana della cantina al tempo grigio della strada».
Tutto il libro è disseminato di descrizioni del genere. Lo scrittore si chiede se non sia un grave errore da parte dei paesi vincitori usare per questo popolo vinto metodi non poi tanto dissimili da quelli usati dai soldati tedeschi nei territori occupati. In proposito nota che, quando si sente più d’uno di questi disgraziati dire che in fondo prima si stava meglio, non si può concludere semplicisticamente: «Il nazismo è vivo in Germania». Ma non è tanto in questo l’interesse del libro quanto nella chiara denuncia di quello che solo ora si comincia a comprendere e cioè che la politica degli alleati è stata molto più indulgente con i vecchi nazisti, specie i più ricchi, lasciati in pace nelle loro ville con riserve di cibo a sufficienza, che con il resto della popolazione costretta a vivere in cantine umide, senza cibo!
Di recente è stata portata sullo schermo la vera storia di un giovane procuratore tedesco che, negli anni Cinquanta, con molte difficoltà, è riuscito a trovare alcuni ex nazisti mescolati alla popolazione con ruoli a volte anche importanti nella società e a farli condannare, anche se solo alcuni perché altri ha dovuto rinunciare a cercarli. I processi di denazificazione, dice Dagermann, non hanno rigurdato tanto i veri responsabili. Essi erano piuttosto una sorta di spettacolo irreale, in aule spoglie, con le finestre murate, il tetto semidistrutto, e facevano pensare a Kafka, apparivano «come un’illustrazione tratta dalla realtà dei desolati uffici nelle soffitte dove si svolge Il Processo». E intanto i treni merci erano carichi fino all’inverosimile di sfollati lasciati per giorni su binari morti perché nessuno voleva accoglierli e ricordavano i lugubri treni merci carichi di ebrei e rom il cui destino era tragicamente segnato.
L’ultimo capitolo è dedicato al rapporto fra sofferenza e letteratura. Che cos’altro ci si poteva aspettare da uno scrittore che in Il nostro bisogno di consolazione aveva rivendicato in maniera così esemplare l’inalienabile aspirazione umana alla felicità, alla libertà, al riscatto, il diritto di ognuno a esistere senza altra giustificazione che la propria inviolabilità anche se nella disperata consapevolezza che tale diritto rimarrà irraggiungibile?