Un fotografo della realtà
Le anime di Scampia
Incontro con Davide Cerullo, ex spacciatore affiliato alla camorra, poi rinato attraverso la letteratura e la poesia: «Sono un analfabeta di ritorno e uso questi mezzi semplicemente per testimoniare che si può cambiare. Credo nella speranza, ma è davvero come camminare sul filo del rasoio»
È uscito da poco in Francia Visages de Scampia, les justes de Gomorra, con fotografie di Davide Cerullo e testi de Christian Bobin, Erri De Luca et Ernest Pignon-Ernest. Il libro è stato pubblicato da Gallimard, che ha curato una mostra di fotografie di Davide Cerullo nella sua galleria parigina. Il libro è il frutto dell’incontro nel 2015 dell’artista Ernest Pignon-Ernest e Davide Cerullo, ex spacciatore cresciuto alle Vele, oggi fotografo, scrittore e impegnato nel sociale con la sua associazione “L’albero delle Storie”. Ernest Pignon-Ernest voleva proseguire a Napoli il progetto «Se torno» (Si je reviens)”, che lo aveva portato a Roma e Matera per incollare sui muri delle due città l’immagine di un Pasolini dallo sguardo severo, in una posizione simile alla Pietà di Michelangelo, che porta tra le braccia se stesso morto. Sarà Davide Cerullo, figlio delle periferie napoletane, passato dal crimine prima di trovare la redenzione nella poesia, che gli aprirà le mura di Scampia in cui l’artista vede un mondo che avrebbe attratto lo sguardo di Pasolini oggi. Ernerst Pignon-Ernest scopre quindi l’opera fotografica di Cerullo, che cattura per dieci anni la vita del quartiere e dei suoi abitanti, nei suoi aspetti più difficili ma anche con la speranza e la convinzione che i suoi figli possano essere salvati. Erri De Luca e Christian Bobin, anch’essi toccati dal percorso e dall’opera di Davide Cerullo, uniscono la loro voce a quella di Ernest Pignon-Ernest.
Davide Cerullo, quando sei arrivato a Scampia?
Sono arrivato a Scampia quando avevo sei anni, nono di quattordici figli. Sono entrato nella camorra a nove anni. Prima vivevo a Miano, che allora era ancora in campagna, mio padre era un pastore di capre e vendeva latte e formaggio. Arrivare in mezzo al cemento di Scampia mi diede un certo disagio. Ho capito da subito che bisognava crescere in fretta, i ragazzi della Vela Rossa, non amavano quelli della Vela Celeste e così via. Presto mio padre se ne andò e ci lascio soli con mia madre. Incominciai ad ammirare i camorristi. Venivano alle Vele per cercare manovalanza. Mi portavano in giro con loro e a dieci anni già mi facevano fare commissioni. I miei fratelli quando l’hanno compreso mi hanno mandato da mio padre a Cassino. Lì un giorno seppi dalla televisione che avevano arrestato mia madre per spaccio di droga. Io piansi talmente tanto che alla fine mi rimandarono a Scampia. Mia madre, che non aveva più soldi, vendeva cocaina, eroina bianca e hashish. Appena tornato andai a trovarla al carcere di Pozzuoli.
Andavi a scuola?
Ci andavo e mi piaceva anche, ma per gli altri era un simbolo di debolezza. Così smisi presto di andarci regolarmente. Se vuoi realizzarti, mi dissero, devi lasciare lo studio. A quattordici anni ebbi la prima pistola e mi sentii il re del mondo. A sedici anni mi arrestarono per la prima volta, uscii di prigione dopo tre giorni e mi misero ai domiciliari per tre mesi. A diciassette anni mi spararono perché spacciavo in una zona in cui si facevano summit di camorra e le famiglie non volevano che si attirasse la polizia in quelle zone. Mi avvertirono per qualche giorno e io me ne fregai. Alla fine mi spararono inseguendomi in un circolo ricreativo. Mi feci quaranta giorni in ospedale piantonato dalla polizia. Per fortuna fui protetto dal boss che io chiamavo “lo zio” e che dopo avermi dato 500 mila lire, mi disse di non preoccuparmi perché avevo una famiglia. Io appena potei mi tolsi il gesso e ricominciai la vita di sempre. A 18 anni mi arrestarono di nuovo. Mi portarono a Poggioreale al padiglione Avellino, eravamo tantissimi in cella ed erano tutti boss affermati. Fu una palestra del crimine. Un giorno però trovai sulla mia branda una copia del Vangelo, nelle penultime pagine vi era scritto tre volte Davide, Davide, Davide e per un attimo ho pensato di poter essere anch’io parte di una altra storia. Ho strappato quelle pagine e le ho conservate. Poi però ho ripreso la vita di prima. Anzi diventai responsabile di una piazza di spaccio, ero molto legato a Vincenzo di Lauro, a Biagino Esposito, adesso collaboratore di giustizia e killer di Paolo di Lauro. Una volta conobbi “o Lell”, Lello Amato il capo dei scissionisti, detto lo “Spagnolo” che fu arrestato in Spagna. Sniffavo tutto il tempo, ma per fortuna non mi bucavo perché avevo paura delle siringhe. Mio fratello invece per anni ha utilizzato l’eroina e quasi tutti, soprattutto i maschi divennero camorristi.
Quando cambiasti vita?
Oltre a non avere stimoli nella camorra, non ne avevo nemmeno negli spazi grigi delle Vele. Un giorno incontrai Sergio Bardellino, pittore, gay ed ex tossico dipendente. Fu la prima casa privata in cui vidi dei libri, era quasi un mistico dei colori. Mi parlava di cose di cui nessuno mi aveva mai parlato. Mi raccontava di libri, colori e artisti. Un giorno capii che avevo sbagliato tutto e che dovevo cambiare vita. Non fu facile disabituarsi alla droga, ai soldi facili e alla bella vita, ma era una vita vuota. La camorra mi lasciò andare perché non avevo ucciso nessuno. C’ero andato vicino perché avevano sparato al padre del mio migliore amico e lui si voleva vendicare. Noi avevamo organizzato tutto, ma per fortuna non trovammo il killer. Non avevo segreti importanti e comunque i miei fratelli rimasero legati al sistema ancora per qualche anno. Occupai uno scantinato a Scampia, incominciai a leggere Pasolini, Majakovskij, Danilo Dolci, Don Milani, Alda Merini, Erri de Luca. Mi si aprì un mondo. Avevo ormai ventidue anni. La letteratura e la poesia mi hanno aperto degli orizzonti impensabile, mi salvarono. Quando lo dissi a mia madre, lei la prese malissimo. Era talmente abituata al male che pensava che mi stessi perdendo. Poi un amico mi fece conoscere le suore del Don Guanella che mi ospitarono per due anni e da lì andai a Modena dove una famiglia mi accolse. Lavoravo come collaudatore di pompe agricole e in quegli anni mi sposai con Patrizia Mincione. Ho fatto moltissimi lavori e scrissi il mio primo libro, Anime bruciate, i bambini di Scampia. Incominciarono a chiamarmi per raccontare la mia storia nelle scuole e iniziai a girare per l’Italia e conoscere scrittori, poeti, giornalisti. Per la prima volta compresi davvero quello volevo fare nella vita. Poi ritornai a Napoli per fondare con mia moglie Patrizia il CentroInsieme.
Quando hai iniziato a fotografare?
Iniziai a fotografare per immortalare, per fermare un’immagine, per guardare bene e capire meglio. Io non avevo avuto la possibilità di essere un bambino e quindi incominciai a fotografe i bambini e incontrare attraverso loro, la mia stessa tristezza, il mio non essere stato bambino. Ho iniziato a fotografare prima ancora di scrivere. Amo molto i ritratti e volevo fare fotografie che turbassero, anche violente, per suscitare un senso di turbamento che avvicinasse la gente ai bambini delle Vele. Ho sempre avuto paura di essere un professionista della fotografia o della scrittura. Sono un analfabeta di ritorno e uso questi mezzi semplicemente per testimoniare che si può cambiare. Credo nella speranza, ma è davvero come camminare sul filo del rasoio, non è mai scontata perché il “sistema” ti dice che non potrai cambiare. E se cambi non è affatto facile disabituarsi ai soldi, all’essere stati criminali. Io saprei ancora come fare a esserlo, se solo volessi. E quindi devo combattere a volte contro me stesso per riaffermare la mia libertà. La mia liberazione è passata dai libri e dall’incontro con persone diverse, isolate come il mio amico pittore, gay ed ex eroinomane che viveva anche lui nelle Vele.
Quando hai incontrato per la prima volta Erri de Luca, Enrest Pignon-Ernest e Christian Bobin?
La poesia di Christian Bobin mi era piaciuta molto e incominciai a leggere molti suoi libri negli anni in cui iniziai a leggere Pasolini. Erri de Luca lo conobbi anni fa di persona, si appassionò molto alla mia storia e da allora abbiamo fatto alcuni progetti insieme. Anche grazie a lui ho continuato a comprendere che la poesia è liberatoria. Raccontando la mia storia nelle scuole e nelle associazioni, piano piano ho incominciato a incontrare persone che non avrei mai pensato di conoscere. Per esempio come il famoso decano della street art francese, Ernest Pignon-Ernest, che incontrai grazie ad una amica del Centro Culturale Francese. In quegli anni imparai che grazie all’arte potevo essere infinite persone diverse, che vi erano tante possibilità. La scoperta dei musei, del cinema, delle librerie mi ha aperto un mondo. Cominciando poi a scrivere e fotografare iniziai a conoscere fisicamente gli autori.
Quali sonno i tuoi soggetti preferiti?
Trovo interessante la complessità della vita e l’accettazione che non possiamo sempre riuscire o comprendere tutto, perché siamo limitati. Questa complessità fa scattare la curiosità nei confronti dell’esistenza in quanto tale. Per esempio leggendo e curiosando ho collegato il mio vendere eroina con le scene di ragazzi morti che vedevo ogni tanto in giro negli anni in cui spacciavo. Mi sono accorto del mondo in cui ero finito. I boss della camorra pensavano che i poveri erano la loro grande speranza perché li avrebbero protetti in cambio di lavoro. Io compresi che mi avevano reso schiavo.
Che messaggio vorresti dare alle istituzioni e ai giovani delle periferie?
Vorrei che si tornasse a investire sugli insegnanti perché la scuola è fondamentale, ma non deve vivere di continui progetti emergenziali, ma formare a vivere in modo stabile. Cosa che purtroppo non riesce sempre a fare. Spero poi che presto il libro venga tradotto in italiano perché sarebbe un vero peccato che proprio i ragazzi di Scampia non potessero leggerlo.