Visto al Globe Theatre di Roma
La maschera Otello
La stagione del Globe di Roma prosegue con “Otello” diretto da Marco Carniti: è Maurizio Donadoni a prestare il volto alla gelosia delirante. Indirizzo tradizionale con un’apertura iniziale a ricordare l’invenzione dell’uomo compiuta da Shakespeare
Di nuovo Shakespeare, di nuovo il Globe. Quattro secoli e oltre non sono stati sufficienti a scalfire la forza del Bardo, perché l’uomo continua ad amare, l’uomo continua a tradire, l’uomo dubita, l’uomo lotta, l’uomo è geloso. È l’evidenza di ogni verso, è la teoria magistralmente stigmatizzata da Harold Bloom nel suo Shakespeare. The Invention of the Human. Otello è il sospetto che subdolo si insinua e più non abbandona, è l’ombra sinistra nemica dei rapporti umani. Otello è la questione razziale mai risolta – oggi meno che allora, stando alle proposte di abolizione della Legge Mancino, o forse più di allora, stando all’ultimo royal wedding di casa Windsor.
Otello è in ognuno di noi, ancora e ancora. Lo esplicita l’incipit metateatrale dell’allestimento di Otello firmato Marco Carniti presentato al Globe Theatre di Roma per la stagione 2018: l’attore che interpreterà Otello (Maurizio Donadoni) deve finire di truccarsi e viene rincorso. Il cast siede distribuito in due tavolate e ripete, meccanico e alienato, il gesto di colorarsi il volto, quasi eco degli artificiosi movimenti ossessivamente reiterati dell’Hamlet Machine di Heiner Müller. Gli attori si interrompono. Uno ad uno si dirigono verso le quinte. Mostrano la scritta sul dorso delle loro T-shirt nere: «IoSonoOthello», muto preludio all’ennesimo perpetuarsi della pena di Otello e monito, oggigiorno reso ancor più inquietante dal succedersi di hashtag del tipo #JeSuisCharlie. «In me amore e dovere sono solo apparenza», Iago (Gianluigi Fogacci) mette in guardia il pubblico: il suo monologo è iniziato, il dramma pure.
Nonostante le premesse, l’Otello di Carniti si rivelerà di intonazione tradizionale, salvo qualche timida virata verso una comicità superficiale (quando non fuori luogo). Iago è il burattinaio che conduce l’azione, ordisce l’inganno, insinua il dubbio. È la versione tragica del Don Juan di Molto rumore per nulla, con la sola differenza che il suo oscuro piano di vendetta colpisce crudele e straziante. La menzogna è connaturata al suo stesso modo di parlare: Iago parla per iperboli e understatement. Il suo animo corrotto e sinistro pervade l’intero dramma, e così la ripetizione insistita di «onesto» riferito a Iago da tutti gli altri personaggi si snatura, fino a perdere valore agli occhi del pubblico onnisciente, con perfetto gusto per l’ironia tragica di antica memoria. L’espediente era già del Julius Caesar, dove Marcantonio ripeteva ai cittadini «Brutus is an honourable man». Da segnalare, per il nitore della prova attoriale, Maria Chiara Centorami nel ruolo di Desdemona, e Maria Filippi, responsabile dei costumi. Nell’immaginare la figura del Moro si serve dei disegni geometrici tipici di molte stoffe africane e delle treccine africane, e gli stessi espedienti vengono trasferiti su Desdemona, a sottolineare la sua piena adesione alla diversità del consorte scelto a dispetto del volere del padre e di ogni convenzione socialmente accettata.
La calma razionalità apparente della prima parte si incrina fino a degenerare nella seconda. Otello si mostra in scena completamente deformato, i suoi movimenti, prima maestosi, sono meno aggraziati; il trucco tribale del volto porta i segni del logorio mentale e annuncia il destino di morte. La bestia ha preso il sopravvento. Panche e pedane cedono il posto a recinti metallici e la scena diventa spazio sempre più mentale e sempre meno scenico: così Fabiana Di Marco, responsabile delle scene, dà forma tangibile alla gabbia psichica del sospetto, dell’invidia e della gelosia. Perché di questo si parla, e si parlerà sempre, ogni qualvolta si pronunci il nome di Otello. È la storia di una crisi di fiducia dell’uomo verso l’altro uomo, dove amore, razza, posizione sociale sono solo cornici pretestuose. In Otello si ragiona su chi meriti la fiducia, si analizza cosa rende l’“animale sociale” meno animale degli altri: la sua fame di amore, da una parte, di potere dall’altra. Si ragiona una volta di più su cosa significhi “uomo”.