Giuseppe Grattacaso
A proposito di "Rifrazioni"

Un giardino poetico

Con la sua poesia, Elio Pecora continua a parlare di se stesso, della fedeltà all’amicizia, di un quotidiano spesso fatto di eventi minimi, e intanto ci fa vedere il mondo nella sua complessità e nella sua miseria

Elio Pecora ha attraversato da assoluto protagonista le vicende culturali degli ultimi decenni. Rifrazioni, pubblicato nella collana dello Specchio di Mondadori, è il suo ventesimo libro di poesie. Alla ponderosa produzione poetica vanno aggiunti i volumi di prosa, gli scritti per bambini, gli interventi critici, l’attività di giornalista culturale, sia per i quotidiani che per le trasmissioni radiofoniche della Rai. Il suo contributo è stato determinante, anche se la sua presenza è sempre apparsa discreta; a tratti, si direbbe, silenziosa.

Con Rifrazioni Pecora, superati gli ottanta anni, fa i conti innanzitutto con il tempo, che vorremmo credere sia un’ordinata sequenza di attimi e invece si rappresenta come una massa, a volte densa in altri casi rarefatta, di pensieri in movimento, di ricordi che sfuggono, di insicure proiezioni nel futuro. I versi si muovono tra l’accettazione che la propria vicenda non sia “che un intreccio infinitesimo, il disegno sbilenco / di una foglia prossima a insecchire” e “la voglia testarda di restare”.

Il personaggio protagonista di queste poesie, un se stesso pensieroso e silente, in qualche modo in lotta con un mondo tumultuoso e ostile, viene descritto in terza persona, come se il poeta volesse segnare un margine di distanza, vedersi da un tempo diverso, un immediatamente dopo o un poco prima che già allontana, oppure intendesse liberarsi da una vicenda sentita troppo privata, per denunciare come la propria condizione non sia altro che un dare conto della bellezza e della pochezza dell’esistenza di tutti. Pecora ci dice che sono “tutti qui i paradisi e gli inferni, così da non avere più / da ascendere o da discendere”, che “al desiderio basta il desiderio / di una felicità solo sfiorata”, che la bellezza può appartenere ad ogni cosa, è spesso lontananza e perdita (“Chi negherà bellezza all’abbraccio / che può esserci tolto?”), che infine tutto conduce, quasi come a un approdo rassicurante, a “sottrarsi alla voce, uscire dai piedi, dal nome, / nemmeno più la perdita, nemmeno il silenzio”.

Rifrazioni è un libro sapienziale senza la presunzione di verità che a volte caratterizza la sapienza. I versi si propongono con la voce che distingue i classici, ferma e determinata nel metterci di fronte alla realtà, ma anche lieve ed estremamente chiara quando deve raccontare l’esistenza, arrivando così a sospenderci con delicatezza sull’abisso, sulla linea incerta dove vita e morte si confondono, dove i luoghi frequentati ogni giorno sono abitati ora da presenze reali e da ombre.

Pecora descrive il mondo da “un giardino ai piedi della collina”. In questo spazio protetto “fiorivano d’estate dalie / gialle e cremisi. Ibiscus bianchi e azzurri, / un loto, un’acacia, un melo verde, un fico / spandevano sul terreno morbido la loro ombra leggera”. Il giardino è lo spazio reale su cui si affaccia la casa del paesino di Sant’Arsenio, dove il poeta, che in quel paese è nato, torna d’estate a meditare e a scrivere, ed è anche una sorta di luogo incantato, dove si compie il meraviglioso, dove è possibile che i viventi e coloro che vissero trovino ancora modo di incontrarsi, perché, foscolianamente, “non è perdita l’addio / se lascia tracce nelle stanze aperte del cuore”. Queste presenze “non sono larve, frammenti. Hanno mani, hanno piedi / e nomi e gesti”, sono “abitatori di un mondo senza peso”, sono ombre che “alle domande mute mute rispondono”. Così la sezione Lo spessore dell’ombra, la quarta delle cinque che compongono la raccolta, si anima della presenza di scrittori e poeti amici, Sandro Penna, Palazzeschi, Moravia, Elsa Morante, Luciano Erba, Dario Bellezza, Francesca Sanvitale, Amelia Rosselli (“Era nella sua voce d’organo, in quel viluppo di note alte, cupe, distese, / e nei farfuglii, negli incagli, / la sua incomparabile musica: / che veniva da cieli segreti / di là dalla muraglia delle lingue”), ma anche dei familiari del poeta o degli oscuri abitatori del paese, come Aduccia, che “portava abiti con molti bottoni, arricciature, volant” e che “finanche i grembiuli da cucina guarniva con viole e gelsomini”: era la sarta del paese e “due anni prima di morire, si chiuse nella sua casa / e ammutì”.

Nel giardino, d’estate, torna “un uomo / che da sempre, il suo sempre, cercava parole esatte / contro il rumore”. È questa, in effetti, una dichiarazione di poetica; la poesia, per Elio Pecora, nasce dallo sforzo e dalla necessità di trovare “parole esatte”. L’onestà di ogni poesia, diremmo chiamando in soccorso Saba, è proprio in questa ricerca di precisione, di scrupolo, di meticolosa cura. Ciò che è esatto è anche in qualche modo asciutto, rifiuta gli orpelli, gli ornamenti senza utilità, i fronzoli disonesti. In questo senso la parola esatta è d’ostacolo al rumore, alla parola gridata e abusata, a cui questi tempi ci hanno abituato. La poesia di Pecora, sia quando privilegia il verso lungo che quasi assume il ritmo del poemetto in prosa, sia quando invece propende per i toni più lirici, è fedele a questo principio, non cerca scorciatoie, non si rifugia mai in formule scontate, può essere soltanto rigorosa e disciplinata. È una poesia dunque che non si accontenta, che è sempre alla ricerca di un approdo, che peraltro sa irraggiungibile.

In opposizione allo spazio eletto del giardino, c’è la città, con il suo “tumulto infernale / con dannati che vanno / – avvoltolati d’ansia – per ignoti traguardi, dove “tante sono le storie, / tanti sono gli inganni, / quel che ieri ha disfatto / torna intatto domani”. In questo luogo dove regna il rumore, in questa “età affollata di dèi”, anche le divinità hanno perso di vista il proprio ufficio: Ermes “non reca più messaggi”, ma vuole solo istruire “la truppa fittissima dei ladri”, “la truccatissima Afrodite / (…) / si limita alle sue svenevolezze / torcendosi sui tacchi”, mentre Zeus e Plutone “l’uno se ne sta in piedi sul suo scanno, / l’altro mugola chiuso nel suo buio, / entrambi ormai svuotati di potere / ripetono uno stanco teatrino”.

Pecora è forse l’unico poeta che, in questi anni, sia riuscito a parlare di se stesso e della propria vicenda biografica, della fedeltà all’amicizia, di un quotidiano spesso fatto di eventi minimi, e intanto farci vedere il mondo nella sua complessità e nella sua miseria. Anche per questo Rifrazioni (il titolo fa riferimento alla deviazione subita da un’onda, per esempio di luce, quando passa da un mezzo ad un altro, quindi all’atto di percepire un esterno continuamente cangiante) è un libro di grande ricchezza e di straordinaria forza.

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