Su “Nell’acquario dell’Angiporto Galleria”
L’acquario di Napoli
Finalmente viene pubblicato il romanzo di Francesca Spada sull'inquietudine esistenziale napoletana degli anni Cinquanta. Quella di Caccioppoli e dell'eresia ribelle e comunista
“città della mia infanzia spaventosamente perduta….
(…) nel castello maledetto del dover vivere….”
(Fernando Pessoa, Lisbon revisited in Poesie di ‘Alvaro de Campos)
Una breve stagione di incerte promesse si spense in un gesto, nella Napoli scalcinata e dolente del dopoguerra. La pistola puntata alla testa, il dito che non esita. Renato Caccioppoli, matematico di fama mondiale, iconoclasta impenitente, anima tormentata, chiude la sua vita davanti alle foto di Evariste Gaulois, matematico geniale ucciso ventunenne in duello, e Arthur Rimbaud, enfant terrible morto alla poesia ancora adolescente. «Un gesto sospeso tra la gelida necessità di un teorema e un disperato urlo espressionista» (Liberazione, 6 aprile 2008; si perdoni l’autocitazione). È l’8 maggio 1959.
Simbolica pietra tombale sui fermenti, le speranze, le illusioni, i conati della meglio gioventù napoletana, che nel matematico insigne aveva un faro: qualcosa di nuovo, di potentemente creativo, liberatorio in quegli anni sembrava potesse ancora germogliare nella città che si sgretolava. Da cui si fuggiva perché fuggita era la speranza; via, verso Milano, Roma.
Echi di quel mondo in dissoluzione giungono dal romanzo incompleto di Francesca Spada (che firma con l’aggiunta del cognome anagrafico, Nobili, Nell’acquario dell’Angiporto Galleria), rimasto sepolto tra carte di famiglia per oltre cinquant’anni e ora pubblicato dall’editore torinese Zamorani. Ombre baluginano; facile riconoscere Caccioppoli; si intuiscono le sagome di Guido Piegari e Gerardo Marotta, anime dell’eretico gruppo Gramsci, e per questo espulsi dal Pci (Partito comunista italiano), e il vituperato Salvatore Cacciapuoti, occhiuto e autoritario dirigente comunista cittadino.
Sullo sfondo dell’Angiporto Galleria, minuscolo largo seminascosto dietro via Toledo, allora via Roma. Nella redazione dell’Unità. Qui Francesca, cui il Mistero napoletano di Ermanno Rea conferirà fama postuma, lavorava. Qui lavoravano o convergevano gli altri personaggi che, sotto nomi fittizi, attraversano il romanzo; figure smembrate e ricostruite, come aveva confidato la stessa autrice a Rea: «Ci siete dentro tutti, ma proprio tutti (…). Non voglio dire che siete esattamente voi: vi spezzetto e vi ricompongo dopo aver mescolato i frammenti. Frantumo anche me stessa… almeno così credo».
Napoli, capitale decaduta e provincializzata, disossata moralmente e fisicamente dalla guerra, dall’idiozia burbanzosa del fascismo, dalla prepotenza truce dei nazisti, dai bombardamenti scriteriati degli alleati: santa Chiara distrutta, il Maschio Angioino sfregiato, macerie, macerie, solo macerie lungo via Marina, la fame, la borsa nera, le segnorine, gli americani che spadroneggiano.
Napoli che, nel referendum istituzionale del giugno 1946, esprime un plebiscito per il re fellone (80 per cento alla monarchia). E spalanca le porte alla grigia stagione del laurismo, che consegnerà la città a una classe dirigente incolta, trafficona, speculatrice; ritratta in seguito nel film Le mani sulla città di Francesco Rosi. Tronfio emblema ne è l’assurdo grattacielo newyorkese di via Medina. Da Napoli si fugge, si deve fuggire.
Rare scintille di vitalità ancora sprizzano. Sul primigenio monte Echia, via Monte di Dio, là dove approdarono i primi “napoletani” (fenici, egiziani, greci e via migrando), nel 1945 il giovane Pasquale Prunas vara Sud, bella ed effimera rivista culturale, nominalmente bimestrale.
Richiamo irresistibile per una generazione decisa a dimenticare il plumbeo provincialismo in orbace e anela a un respiro cosmopolita. Accorrono Anna Maria Ortese, Raffaele La Capria (che traduce i Quattro quartetti di Thomas Stern Eliot), Luigi Compagnone, Antonio Ghirelli; Francesca Spada pubblica una poesia. Infine Gianni Scognamiglio, Gaedkens nelle pagine controverse de Il mare non bagna Napoli di Ortese, raffinato musicologo e poeta, rimasto pressoché sconosciuto. Gianni il “pazzo”, che affida ai versi lo smarrimento della sua generazione: «Il nostro canto non vive più./ Una musica di segni uguali/ Resiste all’aria delle notti/ Le labbra chiudono il segreto della bestemmia» (Sinfonia con cori, 1939-45). Come Caccioppoli maschera di una metropoli che stava perdendo se stessa. Sud: nello sfacelo generale tanto entusiasmo, pochissimi soldi, rari numeri: a settembre del 1947 chiude. Da Napoli si fuggiva.
La Napoli di Achille Lauro, il Comandante dell’epica popolare, prende d’assalto le ubertose colline tufacee che sovrastano il centro cittadino. Il Vomero viene affollato di anonime costruzioni “moderne” che cancellano ogni spazio verde: “un Eden”, ricorda commosso chi l’ha visto prima dell’ondata di cemento. Un colpo di bacchetta magica ha fatto sparire il piano regolatore. Si costruisce spesso sul vuoto, preludio ai crolli omicidi degli anni seguenti. Il Comandante ammalia i napoletani, e costruisce le sue fortune elettorali come paladino della monarchia, sulla squadra di calcio. Nel 1952 spende 105 milioni, al tempo iperbolica cifra record, per acquistare il centravanti svedese Hasse Jeppson. Il partito monarchico raccoglie messe di voti, è primo.
L’acquario dell’Angiporto, come lo definisce Francesca, è un baricentro della vita intellettuale. C’è la redazione del Mattino; arriverà Paese sera. Soprattutto c’è l’Unità; due stanzoni affollati di scrivanie, giovanotti, idee, progetti: Giulio dall’unghia del mignolo straripante, Ermanno dalla capigliatura leonina, Franco dall’alta fronte stempiata, Francesca ardente e generosa, Renzo sottile come la sua mente, Enzo che indaga la vita di Eleonora Pimentel, il giovanissimo Ivan dal tratto signorile.
Mentore è Caccioppoli (nella foto). Che coniuga nella sua smilza, severa figura il rigore scientifico – i suoi teoremi ne fanno un’autorità mondiale – e le sirene della poesia. Che trasfonde la sua sensibilità nelle note del pianoforte: André Gide resterà incantato da una sua esecuzione. L’eretico, l’anticonformista, il ribelle, che manifesta in ogni atto il disagio dell’esistere. L’uomo che una sera, in una birreria piena di ufficiali nazisti, ha sfidato i fascisti, che volevano imporre l’esecuzione di Giovinezza, sedendosi al pianoforte e sparando le note della Marsigliese. Episodio che, si racconta, avrebbe ispirato la celebre scena del film Casablanca. Si salvò perché venne fatto passare per pazzo.
C’è la guerra fredda, il mondo diviso in due blocchi monolitici. Il Pci di quegli anni ha una struttura orwelliana, esercita sugli iscritti un controllo totalizzante, asfissiante. Un Minosse che vaticina un’astratta palingenesi, e intanto ringhia, giudica e manda. All’insegna peraltro di un banale, piccolo cabotaggio etico.
Renzo e Francesca sono da tenere d’occhio, anche se Renzo non si è peritato di sacrificare la sua professione di medico per dirigere la pagina napoletana dell’organo comunista. Caccioppoli, compagno di strada, è troppo eterodosso per non essere scomodo. Ogni stormir di fronda è un attentato all’ortodossia: il gruppo Gramsci, appunto. Piegari ne uscirà annichilito (e sempre Rea si incaricherà di ripercorrere la sua drammatica vicenda). Marotta non piegherà il capo e fino all’ultimo alito di vita combatterà, e brucerà il proprio patrimonio, alla testa del prestigioso Istituto di studi filosofici, sognando una rivoluzione intellettuale e una nuova classe dirigente, illuminata e moderna.
L’inquietudine esistenziale, che in quegli anni serpeggia nell’Europa prostrata dalla guerra, si insinua anche nella capitale decaduta, tra la sua esigua, fragile classe intellettuale. Negata con sprezzo, però, dal partito nel segno dell’imminente rivoluzione proletaria. Jean-Paul Sartre è un nemico del popolo. Albert Camus un autore da mettere all’indice. Ma i giovani li leggono, colgono affinità, assorbono suggestioni. E fuggono, fuggono… Caccioppoli si uccide. Due anni dopo sarà Francesca a togliersi la vita.
Renato Caccioppoli. E Gianni Scognamiglio Gaedkens. I due poli, due strade che divergono (con un singolare trait-d’union: anche il grande matematico è un pazzo agli occhi dei benpensanti), per approdare entrambe alla sconfitta. Caccioppoli è l’intellettuale (e l’intellettualità) che ha fiducia nel valore e nella forza dell’intelligenza, con i suoi comportamenti irrituali la sbatte in faccia alla mediocre borghesia cittadina, aristocraticamente l’inalbera fino alla tragica resa. Gianni – fuggito, certo, anche lui –, che nudo sbeffeggerà il miracolo economico italiano sulle rampe del Pincio, sconfina, abbandona irrevocabilmente la razionalità, entra nei ranghi della follia, icastica rappresentazione del destino della sua città.