Periscopio (globale)
Tempestosa Brontë
A duecento anni dalla nascita, è arrivato il momento di rileggere Emily Brontë e il suo "Cime tempestose": molto più che un classico romanzo d'amore del romanticismo...
Emily è alta, scrive la sorella Charlotte, di gran lunga la più alta della famiglia. Emily è pallida, pallidissima. Emily parla poco, non ha un’indole troppo socievole. Emily è energica e vigorosa, ma ha anche un che di selvaggio, d’indomabile. Può essere malinconica ed esaltata, duttile e inflessibile. L’umiltà la sfiora raramente, per non dire mai. Emily ama la solitudine e non varca sovente la porta di casa. Al pianoforte, però, si trasfigura; pur senza disporre di una tecnica straordinaria, cattura l’uditorio con lo stile e l’espressività.
Il suo libro, al contrario di quello di Charlotte, all’inizio non riscuoterà alcun successo, anzi non sarà proprio considerato, afferma sempre la sorella, se non per stigmatizzarne la perversione e la cupezza. Quelli che non lo ignorano completamente, insomma, ne criticano gli eccessi, che in effetti non mancano. Emily si ammala e muore (ne muore?) sul divano di casa.
Sto parlando naturalmente delle sorelle Brontë, e in particolare di Emily (qui accanto), nata il 30 luglio del 1818, esattamente duecento anni fa. E sto parlando di un libro, Cime tempestose, che non è per nulla di facile accesso e leggibilità, anche se come tale è stato propagandato e contrabbandato da una tradizione cinematografica – a cominciare dal film di William Wyler del 1939 – tutta incentrata sull’aspetto romantico e sentimentale, aspetto che, come vedremo, non è che uno dei tanti (e non certo il più importante).
Anzi, se si volesse fare un catalogo dei temi e spunti che Cime tempestose offre, non la finiremmo più. È un’opera tipicamente romantica che flirta con la tradizione del romanzo gotico (o viceversa); avendo sullo sfondo la Rivoluzione industriale, mette in scena una contrapposizione senza esclusione di colpi fra classi sociali (la rispettabile e tradizionale classe dei proprietari terrieri contro l’implicita alleanza formata da un parvenu come Heathcliff e da borghesi in rapida ascesa come i Linton); si presta, come vedremo, a interpretazioni psicanalitiche di ogni scuola e direzione; permetterebbe addirittura qualche speculazione religiosa. Per essere l’archetipo della storia d’amore romantica, insomma, c’è un po’ troppa carne al fuoco, e anche questo spiega probabilmente le riserve con cui la critica contemporanea accolse il romanzo. Né, siamo giusti, poteva forse andare diversamente, anche se poi Charlotte esagerò i fatti presentando tutte le recensioni come negative. In realtà, sebbene un po’ sconcertati, i critici dell’epoca riconobbero almeno l’originalità e le capacità dell’autore (che era poi un’autrice).
Ma partiamo pure dalla storia d’amore, che di per sé è già abbastanza singolare. Tra i due protagonisti, Catherine e Heathcliff, più che tenerezza sembra prevalere l’ansia di possesso e neutralizzazione dell’altro. Per l’angelica e a un tempo perversa Catherine, sposare un self made man come Heathcliff significherebbe abbassarsi di livello sociale, e non è che questo, in fondo, il motivo che la spinge al matrimonio con Linton; al tempo stesso, per tutto il romanzo Heathcliff non fa altro che cercare un modo altrettanto sadico per punire Catherine della sua arroganza e altezzosità. Sono attratti l’uno dall’altra in un vortice di passione, passione che è stata definita “blasfema” appunto perché paragonabile a quella religiosa; e al contempo si detestano a vicenda con tutte le forze e fanno del loro meglio per ferirsi, pur dovendo riconoscere che la vita senza l’altro non avrebbe alcun senso. Alla fin fine, più che ferire e tradire l’altro, ciascuno tradisce se stesso, le proprie aspirazioni sociali ed economiche, il desiderio più intimo che non corrisponde a quello cui, agli occhi della società, dovrebbe aspirare. Ciascuno trasgredisce, sentendosi in colpa: Catherine per non aver saputo creare un’oasi per i due amanti, Heathcliff come forma di rivalsa nei confronti di chi l’ha sempre vilipeso e maltrattato, a partire dal fratello di lei e dalla classe sociale che questi rappresenta. Tutta la storia ruota intorno al paradiso perduto dell’infanzia e all’impossibilità di ripristinarlo in età adulta, quando i giochi sono fatti e le regole del gioco fissate da altri; e tutta la storia, lungi dal lasciarsi imbrigliare in una cornice romantica, rappresenta una tragedia, e ha semmai molti più punti di contatto con la tradizione gotica che con quella squisitamente romantica. Emily, scrisse in un saggio Virginia Woolf, “volgeva lo sguardo verso un mondo in preda al caos e sentiva in sé la forza di conferirgli unità in un testo.” E quando parla delle due Catherine del romanzo, madre e figlia, aggiunge: “…nessuna donna avrebbe mai provato quelle emozioni, né agito come loro. Eppure sono le donne più incantevoli del romanzo inglese.”
Dicevamo poi delle varie interpretazioni psicanalitiche. In quella freudiana, e per farla molto breve, la relazione fra Heathcliff, Catherine ed Edgar corrisponderebbe a quella fra Es, Io e Super-io. Heathcliff esprime le pulsioni più basilari rimanendo ancorato nell’inconscio, Catherine vive sul proprio corpo lo scontro fra tali pulsioni e la società, le cui regole comportamentali sono impersonate da Edgar, entità regolatrice. In una prospettiva junghiana, invece, Heathcliff sarebbe per Catherine l’Ombra, che consiste di desideri percepiti come inaccettabili per ragioni che possono essere intime o sociali; in quanto Ombra, Heathcliff viene rimosso dalla vita di Catherine, ma poi ritorna prepotentemente, malgrado o forse a causa del matrimonio con Edgar, quale elemento irrisolto nella sua vita. Al tempo stesso, sempre in termini junghiani – e mi scuso per la grossolanità della sintesi -, Heathcliff per Catherine sarebbe anche l’animus, ovvero tutto ciò che corrisponde alla riflessione e alla decisione, mentre lei è per lui l’anima, l’abilità di entrare in relazione con il prossimo, e questo spiegherebbe la profondità e inestricabilità del loro rapporto e del loro destino.
L’ineluttabilità provocata nell’andamento narrativo da profili psicologici così netti congiura con altri elementi a far sì che, sotto il profilo stilistico, nel romanzo non ci siano esitazioni nelle descrizioni, né ellissi, ripensamenti o distinguo; la paratassi prevale, il dialogo è diretto, le pennellate sono sicure e cariche di colore, quasi furiose.
Che Emily fosse l’autrice del libro, lo si saprà solo nel 1850, quando la sorella Charlotte svelerà in una “biographical notice” che a nascondersi dietro gli pseudonimi (rigorosamente maschili) di Ellis e Acton Bell erano le sorelle Emily e Anne. Al tempo stesso farà così giustizia dell’equivoco che si era venuto a creare quando l’editore Newby, prima di pubblicare i romanzi delle sorelle, Cime tempestose, appunto, e Agnes Grey, aveva voluto attendere la seconda edizione del fortunato Jane Eyre, scritto invece da Charlotte, appunto per ingenerare nel lettore l’impressione che dietro i tre Bell si celasse un solo autore, di grande successo.
Refrattaria a qualunque cura medica, contraria anche all’omeopatia, che stando a una lettera di Charlotte considerava “l’ennesimo rimedio da ciarlatani”, Emily si era però spenta già due anni prima, negli ultimi giorni del 1848, appena trentenne e del tutto misconosciuta. Diventerà un’icona romantica solo in seguito, anche a causa della morte prematura, che la accomuna a Keats, Shelley e Byron, oltre che alla sorella Anne. Ma era davvero un tratto dell’epoca: non muoiono forse giovanissimi anche gran parte dei personaggi principali di Cime tempestose, a cominciare dall’appena diciannovenne Catherine?