A proposito de "L'innumerevole uno"
Surrealismo Duemila
Lia Migale, a novant’anni anni esatti da “Nadja” di Breton ha scritto un romanzo surrealista. La vita, l'identità, l'immaginazione: un meraviglioso, spiazzante anacronismo
Cominciamo col dire che L’innumerevole uno di Lia Migale (Iacobelli, pp. 103, euro 12) è un meraviglioso, spiazzante anacronismo. L’autrice ha scritto infatti un romanzo surrealista nel 2018, novant’anni anni esatti da Nadja di Breton (1928), che viene peraltro citato in queste pagine. Dunque un romanzo senza una vera trama, o almeno senza una storia lineare (il che potrebbe anche indispettire alcuni lettori): un romanzo autobiografico che si affida a corrispondenze segrete, analogie, alchimie del cuore e dei sensi, coincidenze, e dove meravigliosamente domina il caso, la magia, l’inconscio, la numerologia, l’antico Egitto (fino al re Akhenaton…), l’esoterico… Qui c’è Thomas, come in Breton c’era Nadja, che l’autore o autrice insegue e cerca: Thomas e Nadja rappresentano una alterità imperscrutabile, eppure anche una misteriosa prossimità, un modo per perdersi o forse per salvarsi (una finisce in manicomio l’altro si suicida). Il romanzo è un sogno della mente, una allucinazione da sveglia, un delirio controllato, che procede per frammenti, visioni, ricordi (potrebbe anche ricordare alcune cose di Bolano). Il capitolo straniante di una storiografia alternativa degli anni ’70, dei desideri e dei sogni di quel decennio.
Dato che una recensione deve pur somigliare all’oggetto che recensisce (dunque anch’essa frammentaria, rapsodica, digressiva), provo ora a indicare alcuni spunti che la lettura mi ha suggerito, senza alcuna pretesa di metterli in un ordine.
1) Queste pagine hanno una loro musica inconfondibile, e perciò appartengono un po’ alla poesia, la quale è una infiltrazione della musica nella letteratura. Di che musica si tratta? Una musica a volte dissonante, impressionistica, a volte crepuscolare e tardoromantica, tra Schubert, Satie e Debussy.
2) Il libro è una ricerca di identità, uno spericolato “conosci te stesso” che fatalmente non arriva, non può arrivare a nessuna conclusione. Chi intraprende una ricerca del genere può arrivare solo a una conclusione tragica (così la indagine di Edipo in Sofocle: si credeva il più felice abitante di Tebe e invece…) oppure incartarsi su di sé e smarrirsi in un gioco pirandelliano di specchi: uno e innumerevole, uno nessuno e centomila.
3) L’omaggio commosso, sentito, a Mario Mieli, quasi starei per dire il nostro Foucault, semisconosciuto in patria, ma che pure all’estero viene tradotto e studiato: ha anticipato la teoria del genere, è citato da Judith Butler, ha saputo unire rigore filosofico e allegria dello stile (la filosofia danzante di Nietzsche, una gaia scienza del travestitismo), uno spirito libero scomparso a 30 anni, una abbagliante meteora nella cultura italiana di quegli anni. In una occasione pubblica Lia Migale ha detto che la prima volta che incontrò Mieli questi la baciò subito sulla bocca.
4) La digressione su “eliotropia” (lei desiderava una saponetta all’héliotrope, oggetto di consumo, guida all’altrove) è forse la invenzione più bella e poetica: il significante precede il significato, così come la risposta precede la forma esatta di una domanda, e nella nostra esperienza accade spesso che l’effetto viene prima della causa.
5) Il punto forse più delicato. Questo libro è contagioso e parla anche di te lettore, ti invita a una anabasi, ad una discesa spericolata dentro di te, ad una catabasi dagli esiti incerti. Ed ecco che leggendolo pensavo alla mia identità. Certo la mia sessualità è condizionata, ma d’altra parte io consisto proprio di tutti i miei condizionamenti, senza i quali non sarei nulla, mi dissolverei (Kierkegaard diceva che aveva una spina, ma che se la toglieva, moriva…). Il problema è cosa fare dei propri condizionamenti, come prenderne coscienza e come usarli. Dico solo che personalmente concedo un po’ meno alla poetica del sogno e del senso della possibilità. Certo, riesci a vivere molte vite con l’immaginazione mentre se ne vivi una sola diventa un inutile spreco. Ma i nostri sogni non sono migliori di noi, e anzi la realtà continua a essere per me più misteriosa e imprevedibile di qualsiasi fantasticheria o anche di qualsiasi utopia. Altrimenti il libero gioco delle identità diventa qualcosa di gratuito, e alla fine di noioso come quei disegni dei bambini dove tutto è inventato, dove non c’è nulla che fa resistenza alla nostra creatività, e dunque non si produce alcuna scintilla… E poi l’esistenza è precisamente quell’inutile spreco. Guai a pretendere di orientarla razionalmente, di economizzarne la energia. Sulla identità concordo con Vonnegut: uno è quello che finge di essere proprio perciò deve stare molto attento a quello che vuole fingere di essere (dove si mescolano recita e autenticità, carattere e destino, necessità e libertà). Oggi io credo che la differenza tra i sessi sia qualcosa di biologico (la vita stessa è differenza, ognuno di noi è attraversato dalla differenza) mentre i generi sono un fatto culturale. Nell’altro – una donna – io cerco una complementarità (fatta anche di conflitto, certo), cerco il suo femminile e il suo maschile per poter interagire con il mio maschile e femminile, insomma mettere in contatto la mia differenza e la sua differenza , e vedere l’effetto che fa. Ma qui il discorso diventa confuso, e insomma dovrei anch’io scrivere un romanzo surrealista.