A Roma una sentenza che suscita polemiche
L’arte e il giudice
Il tribunale ha intimato al ministero dell'Interno di pagare 28 milioni di euro per risarcire il mancato sgombero dell'ex fabbrica Fiorucci dove è nato il Museo dell’Altro e dell’Altrove. Una scelta sbagliata: vediamo perché
Ventotto milioni di euro. È la cifra di risarcimento che un giudice del Tribunale Civile ha addebitato al ministero dell’Interno per il mancato sgombero dell’ex fabbrica Fiorucci, sulla Prenestina, a Roma, occupato da duecento famiglie di senzatetto e poi trasformato in un gigantesco contenitore di opere d’arte, il Museo dell’Altro e dell’Altrove. Difficile che la sentenza possa avere immediatamente corso, nonostante i modi spicci e brutali del suo principale destinatario, il neoministro Salvini, cui offre una leva per applicare al complesso fenomeno sociale delle occupazioni abusive di case gli stessi metodi di forte presa sul suo elettorato usati contro i migranti. Non foss’altro che per il complesso scenario di ripartizione delle colpe e dei danni tra gli altri soggetti pubblici, Roma Capitale e Regione Lazio, coinvolti. Specie in periodi di bilanci in rosso come questi.
Ma, certo, rappresenta un siluro per la sopravvivenza di quello straordinario e anomalo esperimento sociale e culturale in corso da quasi dieci anni in quella fabbrica in disarmo a poca distanza dal Raccordo anulare. Un esperimento che porta la firma di un antropologo di matrice situazionista, Giorgio De Finis, che l’assessore alla cultura del Comune Luca Bergamo aveva premiato affidandogli l’incarico di rianimare il Macro, il museo d’arte contemporanea del Campidoglio da tempo in declino, e dandogli, con l’incarico di curatore, carta bianca per riaprirlo e rimetterlo in moto a partire dal prossimo autunno applicando parte delle ricette testate nel fondare dal nulla quel centro d’arte sulla Prenestina. Un progetto che le polemiche innescate dalla sentenza di condanna del Tribunale Civile rischiano ora di intralciare e di compromettere prima di verificarne le applicazioni, le conseguenze concrete e i risultati. Bloccando un processo che, comunque lo si giudichi, puntava a rimettere in discussione i meccanismi, i monopoli critici e le rendite di posizione che soffocano il sistema dell’arte contemporanea. Soprattutto in una piazza affollata ma marginale come Roma.
Legittimo avanzare dubbi, timori e perplessità sulla possibilità di trasferire quel progetto nel Macro. Sulle sue prospettive. Sulle procedure con cui è stato imbastito. Il rischio più forte che personalmente ho denunciato era e continua a sembrarmi quello di trapiantare un’esperienza, maturata in un altro contesto, come quella ex fabbrica di periferia, in un luogo centrale, connotato e delicato come il Macro, cancellandone – sulla scia di una visione che oggi fa tendenza – il ruolo di museo, la sua breve e altalenante storia, le funzioni per cui era nato ed era stato architettonicamente concepito, le ripercussioni a catena sull’intera rete museale gestita dal Comune e sempre più indebolita dall’assenza di fondi e idee guida.
Ma quello era un invito alla trasparenza, al dibattito, alla verifica e non un alt a priori come quello che risuona adesso in molte critiche, riattizzate dalla sentenza del tribunale. Critiche che impugnano come scudo e armi il rispetto formale delle leggi sostenendo che anche l’operazione Macro sia viziata in partenza da quel modello di occupazione abusiva sulla Prenestina, che Giorgio De Finis avrebbe preso a punto di riferimento. Come se fosse compito dei tribunali stabilire che cos’è arte o far arte e cosa no.
Altrettanto legittimo storcere il naso sul valore del Museo dell’Altrove, sullo spontaneismo programmato da cui ha preso vita. Non tutte le opere d’arte sui muri, nelle stanze, nei cortili sbrecciati del Maam sono capolavori. Non lo sono neanche tante opere spacciate per tali in mostre e musei. Ma come negare che lì sulla Prenestina sia avvenuto e sia ancora in atto uno slancio di vitalità che sta sparigliando le carte e liberando ossigeno nel mondo soffocante attraverso cui l’arte oggi si manifesta e organizza, suscitando attenzione e interesse che attirano addetti ai lavori, esperti, intellettuali da ogni parte del mondo. E come non vedere che a dare corpo a questa vitalità sia anche il dialogo fruttuoso, l’anomala convivenza che si è stabilita tra la comunità che occupa l’ex salumificio, duecento famiglie di vari paesi tra cui un nucleo cospicuo di rom, e il movimento fluttuante di artisti coinvolti nell’impresa? Un contagio di positive influenze tra coabitanti fissi e autori in transito che si specchia nelle opere stesse, in una gara virtuosa a far più bella e accogliente quell’area di rovine, che ora sarebbe davvero imperdonabile smantellare. Per ripristinare un ordine formale che non ha nulla a che vedere con la realtà. Come succede alla giustizia quando non dischiude futuro, ignorando il dover essere della giustizia sociale.
Chi ha detto che esser dove la legge ci impone di stare sia sempre giusto? Basti pensare alle leggi razziali. Chi ha detto che infrangere la legge non serva a partorirne una migliore, più aderente alla vita che dovrebbe normare? Dietro ogni avanzamento della giustizia sostanziale c’è un atto di ribellione. Che altro sono state le occupazioni delle terre, le lotte operaie, le conquiste che hanno reso più vivibile la nostra società?
Ma restiamo alla giustizia formale. Trovo singolare ma illuminante la determinazione della cifra addebitata dal tribunale civile. Ventotto milioni di euro. Non so come ci si sia arrivati. Ma balza agli occhi un raffronto. Quello con i circa 7 milioni che la società immobiliare dell’imprenditore Salini versò nel 2006 per acquistare i 19 mila metri quadri dell’area della fabbrica dismessa. Un plusvalore che sembra davvero sproporzionato. L’intento di Salini era di costruirci su un grande complesso di appartamenti, parte dei quali da consegnare al Comune come alloggi popolari. Ma prima bisognava ottenere il cambio di destinazione. Una variante di piano regolatore arrivata solo nel 2013. E passata attraverso vari sindaci, da Veltroni ad Alemanno. Attraverso una trafila di trattative interne molto difficile da ricostruire, secondo un uso di accordi caso per caso che ha sostituito ogni pianificazione, lasciando di fatto ai costruttori il compito di decidere come e dove dovesse crescere e funzionare la nostra città. Una nebbia su cui sarebbe interessante fare luce, passo dopo passo. Quello che è successo al progetto dello stadio della Roma insegna. E ammonisce a star cauti. Perché l’apparenza formale della giustizia, di questo modo di intendere, invocare e praticar la giustizia, nasconde spesso sacche di violazioni ed opacità.
Un’ultima domanda. Per il giudice del tribunale civile l’inerzia di fronte al fenomeno delle occupazioni abusive è punibile, aldilà di ogni altra motivazione: gli sgomberi vanno eseguiti comunque, anche se non si sa dove distribuire e alloggiare gli sfrattati. Ma l’inerzia nell’affrontare l’emergenza abitativa, un fenomeno annoso, che crea queste complicazioni, non produce danni più gravi? Un conto perdite più salato e inquietante?