Al Maxxi di Roma
Assaggi d’Africa
Qual è l’immaginario africano, ossia di quella terra di povertà e contraddizioni che i nuovi razzismi additano come l’ultimo nemico della nostra “pace”? Roma, tra luci e ombre, prova a raccontarlo
Il Maxxi apre le porte all’Africa. E ai temi sempre più incalzanti e attuali che il presente e il futuro di questo continente in perenne fibrillazione pongono ai paesi del benessere che per secoli lo hanno invaso e colonizzato. Lo fa con due mostre che terranno cartellone fino all’autunno, affiancate da un corposo programma di incontri, proiezioni, dibattiti. Un progetto stimolante mantenuto però a basso impatto da un copione fin troppo politicamente corretto e da una confezione formalmente impeccabile ma poco coinvolgente.
Forse l’errore è stato di scegliere come leit motiv di partenza della prima mostra, African Metropolis, il campo d’indagine della citta, lasciando poi liberi gli artisti di raccontare o immaginare a modo proprio la loro. Ma quale città? Quella disegnata ai tempi dell’imperialismo coloniale che ancora dà un volto ai centri storici di Tripoli, Dakar, Città del Capo? O gli enormi e spesso informi agglomerati dei suburbi e degli slums? O la miscela di vecchio e nuovo, miserie e povertà, ordine e disordine che le trasformazioni politiche e sociali hanno portato? E dov’è la campagna dei villaggi, quell’economia di sussistenza spazzata via dalle carestie, dalle guerre, dal nuovo colonialismo delle monoculture imposto dai paesi emergenti, evocato in mostra da una sola opera, una maxiscritta in lingua cinese. Debole, anche se ben costruito, un altro rimando al monopolio della finanza che spolpa i paesi africani senza offrir loro nulla in cambio: un banchetto sormontato da un ombrello ridotto a scheletro da cui pendono monete di varie valure e sul ripiano sono esposti minerali e prodotti della terra. Possibile che una tragedia così forte partorisca solo mediazioni visive appena sussurrate? Possibile che una città immaginaria come quella cui i curatori della mostra hanno fatto riferimento per sintetizzare e trasferire in campo neutro un viaggio attraverso i grandi conglomerati urbani del Continente Nero non riesca a mettere davvero in scena nella loro spesso brutale realtà contrasti, contraddizioni, conflitti?
L’Africa metropolitana, insomma, è stata trasformata in una sorta di non luogo, da un artificio di regia, dall’assenza di bussole, dati di riferimento. Uno spettacolo indifferenziato che solo il linguaggio degli artisti, una quarantina, dovrebbe connotare. Ma solo in pochi casi riesce a farlo perché la maggioranza degli autori prescelti opera ormai in Occidente o in Occidente ha trovato riconoscibilità e mercato. Voci dunque addomesticate e omologate entro formule prefabbricate d’esportazione, che il sistema del contemporaneo ha imposto come modelli parlanti. Ecco lungo il percorso una libreria offerta come luogo di sosta e di riflessione da un autore marocchino, sugli scaffali libri, romanzi e saggi sull’Africa. Quante ne abbiamo viste di proposte così negli ultimi anni? E cosa aggiunge, se non una riverniciatura locale, il fatto che le quinte siano tappezzate di geometrie e colori simil-africani?
Ecco, su una passerella piazzata lungo una rampa, una sfilata di idoli di terracotta e bamboline di plastica rivestiti con scampoli e ritagli di stoffa, made in Nigeria come l’autore. Un bel colpo d’occhio, immediatamente annacquato dalla sensazione di un dejavu che ci assale: altri pupazzi e figurine recuperate da altre discariche, altre stanze d’infanzia, e messe in posa in abiti di altri paesi, Russia, Lapponia, Giappone, Bali cosa cambia?
E ancora: ecco, in un corridoio, una marcia di manichini femminili che indossano sgargianti completi confezionati con ritagli multicolori. L’immancabile angolo della moda. Tutte creazioni firmate da una stilista di colore ghanese, Lamine Badiat Kouyatè che fa molto tendenza nel suo paese e anche all’estero. Merci griffate, ma pur sempre merci, un corpo estraneo in una rassegna e in museo che dovrebbero addestrarci a distinguere fra arte e creatività.
Noi e loro. La differenza resta. E l’incontro rischia di diventare solo un dialogo tra le cattive coscienze di entrambi gli abitanti di due mondi divisi da enormi squilibri di potere, giustizia sociale, politiche, conoscenze, aspettative future. Steccati che il fenomeno delle migrazioni ha riportato alla ribalta e distorto.
Sbagliato il copione di questa immersione totale nell’universo africano anche nel separare le esperienze delle città e di chi ci vive dalla storia che le ha generate e dalle memorie dolorose che ridesta. La condanna del colonialismo e la ricerca di soluzioni per restituire all’Africa il controllo del proprio destino è affidata a un piccolo capitolo a sé, una postilla in calce, complessivamente mal scritta. Giusto ricordare il sogno di riscatto dell’Africa, lo sforzo, per riemergere dagli abissi del terzo mondo, di elaborare modelli diversi da quelli del capitalismo occidentale, che si diffuse come un contagio negli Anni Sessanta, evocando il tentativo di Algeri di mettersi alla guida di questo movimento di rivolta: ma un siparietto di fotografie di luoghi e sedi che hanno offerto cornice a quella ondata di tempesta, che poi perse a poco a poco forza, leaders e obiettivi, è un rimando fiacco e incompleto. Niente più di un invito a informarsi meglio.
Giusto anche mettere in risalto l’esperienza davvero rivoluzionaria varata da Mandela in Sudafrica per consentire a tutti, neri e bianchi, di lasciarsi alle spalle la tragedia e il trauma dell’apartheid, con un rito pubblico di espiazione, attraverso la confessione e il perdono in tribunali non abilitati alla condanna. Ma il video dei due giovani, un ragazzo e una ragazza di colore, che ne discutono e la giudicano da fronti opposti è uno strumento di comunicazione a basso impatto emotivo per i visitatori frettolosi e allenati soprattutto al colpo d’occhio, di una mostra d’arte.
Eppure è propria questa appendice a riservarci le emozioni più intense. Due perle che in modo diverso ci raccontano il profondo malessere che la cultura dell’Occidente e quella africana provano guardandosi reciprocamente nello specchio dell’Altro.
La prima opera è il volto di un Cristo dipinto su un piccolo foglio da Marguerite Dumas, ritrattista bianca incoronata dalle grandi ribalte internazionali. Un Dio sofferente nascosto dietro una maschera di uomo, il naso schiacciato, i tratti somatici di un povero nero qualunque. La seconda opera è un video, realizzato da un cineasta ghanese che vive e lavora a Londra. Una storia di fantasmi che parte da due ritratti inizio Cinquecento, realizzati da Albert Durer. Testa di un uomo negro e Katharina, la donna mora: li battezzano i titoli con cui sono archiviati, senza alcun dettaglio sulla loro identità. Schiavi o mercanti? Secondo gli esperti sono le prime rappresentazioni di persone di origine africana, molto probabilmente due schiavi, nella cultura figurativa del Rinascimento.
Il regista prende in prestito quei volti e dà loro vita attraverso due attori molto somiglianti. Due migranti che partendo da luoghi opposti attraversano in silenzio i panorami di un’Africa di meraviglie: foreste, montagne, deserti, cieli immensi di nuvole, albe, tramonti. Visioni da ultimo paradiso alternate ad altre ripescate dall’immaginario dell’Occidente e soffuse di un aura indelebile e maligna di rovina e d’inferno. Possono essere citazioni di un celebre quadro di Bosh: ragazzi e fanciulle nere che si concedono con la leggerezza dell’ignoranza al gioco e al piacere, esposti come esotiche profezie di tentazioni e peccato. Oppure ragazzine discinte e spaurite riprese con malizia nelle loro capanne da foto d’epoca dei viaggiatori dell’Ottocento che esploravano in anteprima le terre conquistate o da conquistare degli imperi coloniali. Memorie opprimenti, marchi indelebili che neanche l’incanto della Natura africana riesce a compensare o a cancellare.