Mario Di Calo
Al Napoli Teatro Festival Italia

Tutti soli (appassionatamente)

“Si nota all’imbrunire”: Silvio Orlando è il protagonista assoluto della nuova creazione di Lucia Calamaro sull’epidemica Solitudine Sociale. Presentato a Napoli, sarà al Festival dei Due Mondi di Spoleto e in giro per i maggiori teatri italiani nella stagione invernale 2018-2019

Un felice incontro ci rivela che un grande teatro contemporaneo è possibile: Si nota all’imbrunire (solitudine da un paese spopolato), di Lucia Calamaro con Silvio Orlando. La scrittura dell’Autrice trova un interprete d’eccezione: un Attore in stato di grazia che ha raggiunto una maturità e una piena consapevolezza del suo essere attore. Meritate le tante chiamate alla ribalta di un pubblico assai partecipe alla prima napoletana, il 30 giugno al Teatro San Ferdinando, nella cornice del Napoli Teatro Festival Italia 2018 diretto da Ruggero Cappuccio al suo secondo anno di direzione artistica. A metà luglio sarò al Festival dei Due Mondi di Spoleto e in giro per l’Italia per la stagione invernale 2018-2019. Il testo di un’autrice importante (testo per certi versi difficile e sicuramente ambizioso) è mediato attraverso il mondo poetico di un attore che regala a quelle parole una propria straordinaria umanità. Il compito non è facile: i dialoghi introspettivi e ipotattici esigono un’adesione assoluta dell’attore, che li deve incarnare e restituire in maniera credibile e autentica. Il resto lo fa l’affiatamento della compagnia di attori. A cominciare da Maria Laura Rondanini che, con esperienza, spessore e sapienza, ci tramanda un personaggio a tuttotondo con impegnativi risvolti esistenziali, Roberto Nobile una ‘spalla’ efficace, costantemente presente in un percorso sempre in ascesa, ai più giovani Riccardo Goretti e Alice Redini che non sfigurano accanto ai colleghi con maggiore esperienza, a loro un compito difficile, quello di esorcizzare un tema di impegnativo attraversamento.

Il protagonista, al quale Orlando presta anche il proprio nome di battesimo – così come tutti gli altri componenti del racconto fanno con il proprio personaggio – è un padre vedovo, non ancora vecchio ma non più giovane, che festeggia il proprio compleanno a un giorno di distanza dalla ricorrenza del decimo anniversario della morte della moglie. Silvio vive ritirato dal mondo, in una solitudine ricercata, difesa da tutto e, soprattutto, da tutti. Dalle poesie di Caproni, alla Settimana Enigmistica passando per Rachmaninoff: scarse letture e poca musica, dunque, ma molto cogitare solitario. Quest’attività solitaria ha luogo in una casa di famiglia, ben effigiata da Roberto Crea, che giocata su trasparenze ed essenzialità; qui si muovono i personaggi, vestiti dei bellissimi costumi di Ornella e Marina Campanale, tutti giocati sulle nuances di azzurro, beige e carta da zucchero. In questo eremo giungono sempre meno – e sempre meno graditi – echi della vita “al di fuori”. Il rifugio potrebbe essere un luogo della mente? No, la mente è troppo impegnata a rimuginare. E così, per la doppia ricorrenza, giungono inaspettati i tre figli, Maria, Alice e Riccardo, e il fratello di Silvio, Roberto. L’azione si svolge nelle ore che precedono la commemorazione funebre. Ed è proprio la commemorazione finale, incentrata sulle scarpe della ex defunta, che rivela la Poesia allo stato puro. Ed è significativo che tutta la vita di Silvio si svolga – compressa e compresa – fra un compleanno ed una morte. Lucia Calamaro interpone questa vicenda fra due tappe fondamentali dell’esistenza di ogni essere umano. In mezzo a tanta vita, tanto tormento e tanta solitudine. Silvio difatti soffre di Solitudine Sociale, un male contemporaneo diagnosticato dalla nuova medicina. Confessioni, scontri, riconciliazioni. Come in ogni riunione familiare. Con una particolarità: un capo famiglia sociopatico guarda, giudica, confessa. Il fratello medico condivide con Silvio non solo la professione, ma un inespresso talento musicale e una passione sfrenata per le moto. La figlia medico è ossessionata dal bisogno di governare un caos esistenziale che le fa paura. L’altra figlia è una sedicente e velleitaria scrittrice che non ha mai pubblicato un solo rigo. E un figlio bulimico, che si è precocemente instradato sulla medesima via del padre, di rifiuto del mondo. Un Lear nella steppa, quello raccontato in Si nota all’imbrunire, rifugiatosi nella steppa come quello di Padri e figli di Turgenev: piuttosto che condividere, preferisce trattenere per sé le proprie sofferenze ed emotività, i beni ereditati da questa società contemporanea.

La scrittura di Lucia Calamaro è imprevedibile e fuorviante ad ogni snodo drammaturgico; nelle due ore circa di durata dello spettacolo, in un crescendo andante, seppur in una condizione apertamente senza via di scampo riesce sempre a sorprendere lo spettatore. Risultato di una regia, delicata e chirurgica, che giunge al suo scopo offrendo a ciascun personaggio spazio e modo di raccontarsi. Consente al pubblico di ritrovarsi, ognuno nella propria forma di solitudine, vero fil rouge delle figure che si alternano sulla scena. I dialoghi si accavallano, a volte, con bell’effetto di sovrapposizione in cui le voci si mescolano in un chiacchiericcio troppo familiare al consorzio umano attuale. L’incapacità di stare insieme, il bisogno o la condanna alla solitudine, appare condizione umana necessaria, non il risultato di una causa specifica. Il fratello e i figli fanno da coro, da specchio deformante alla solitaria sociopatia del protagonista che li guarda distaccato. Silvio è incapace di empatia e osserva come si osservano i pesciolini rossi girare in una bolla di vetro picchiettando il dito sul contenitore per provocare una reazione che non avverrà. Silvio Orlando tratteggia la figura del protagonista con mille colori, malinconico, grottesco, istrione. Inaspettatamente si sottrae con stizza alla sua stessa affabilità, patetico piccolo uomo consapevole della propria mediocrità che in tale consapevolezza la supera senza però approdare a nulla. Si può ridere di una patologia? Ebbene sì. Si può raffigurare a tutto tondo un carattere? Ebbene sì. Il Sociopatico può ben stare al pari delle grandi caratterizzazioni molieriane, dell’Avaro o del Misantropo. Vi è la stessa grottesca complice risata, alternata a momenti di vero lirismo. Fino alla sorpresa finale: il dolore si svela, e dietro quella forma apparente di rifiuto degli altri fa capolino un bisogno negato.

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