Danilo Maestosi
Visto alla GNAM di Roma

È la globalizzazione, bellezza!

“BRIC-à-brac | The Jumble of Growth”: in piena globalizzazione, lo stato dell’arte nei paesi dall’economia emergente, la mostra curata da Gerardo Mosquera e Huang Du

L’aspetto più riuscito è il doppio titolo che battezza la mostra. BRIC-à-brac | The Jumble of Growth è allestita in collaborazione con il Today Art Museum di Pechino ed è ospitata fino al 10 novembre nel grande salone alle spalle dell’atrio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. In testa un gioco di parole che sfrutta le assonanze di un acronimo, BRIC, coniato per unire Brasile, Russia, India e Cina, quattro paesi d’economia emergente fuori dai tradizionali confini del nostro Occidente e per sottolineare che l’esperienza offerta al visitatore riguarda l’arte che oggi si pratica in uno spicchio di mondo più ampio, diverso da quello con cui noi europei conviviamo. Ma anche per avvertirci, con una aggiunta successiva, che quello che ci troveremo di fronte è un bric à brac, un altro gioco che miscela senza ordine e senza pretese un po’ di tutto: “Il Guazzabuglio dello Sviluppo” (The Jumble of Growth), ci spiega in modo ancora più esplicito e ammiccante il sottotitolo.

Trovare definizioni al servizio di imprese spesso impossibili, dando voci e idee ad artisti convinti di praticare arte concettuale, è uno dei compiti principali che giustifica gli interventi e le parcelle della confraternita dei critici, arbitra delle scelte dei grandi collezionisti e del mercato internazionale del contemporaneo. Qui, se non altro, il titolo sembra calzante, calzante l’invito ad accettare la chiave multiuso del gioco. Anche se in fondo è un po’ mettere le mani avanti, giustificare scelte meno rigorose e meno radicali, di quelle che uno potrebbe aspettarsi dall’intenzione dichiarata della mostra di dare voce ad una metà di mondo che la globalizzazione ha ulteriormente impoverito. Non è un caso che la rassegna trovi il suo più spettacolare biglietto da visita in un grosso statuone di peluche, che raffigura a grandezza naturale un elefante dalla pelle striata da tigre, dai ci posteriori spunta una testa di tigre con i denti affilati. È l’opera di un autore cinese, Tian Longyu, che ribalta l’assunto di un vecchio detto del suo paese: «la tigre non può sbranare l’elefante». Tutto qui: esibire uno scarto di senso e travestirlo da gadget. È la globalizzazione, bellezza! – se la ribellione non sa trovare altro manifesto che questo, che sembra il clone di uno dei tanti ghiribizzi seriali di una star della pop art americana come Jeff Koons.

Strizza l’occhio alla globalizzazione anche il piccolo esercito di soldatini realizzato da Fernando Sanchez Castillo: per quale altro motivo un artista spagnolo dovrebbe prendere a modello, per i suoi pupazzetti, i guerrieri dell’esercito di terracotta, grande testimonianza e inflazionata attrazione turistica della Cina Imperiale? L’opera che per suscitare attenzione fa leva sul richiamo riconoscibile del già noto: è uno dei trucchi più abusati dai creativi del contemporaneo, frutto di un appannamento dei confini tra l’arte e altri mestieri affini che ormai consente a tutti di usare le tecniche di comunicazione a presa facile proprie della pubblicità. Poco male se l’arte così si riduce a merce di scambio, adattandosi al monopolio della convenienza che ormai domina la scena. Si annullano le differenze e così i margini di rivolta, quelli che dovrebbero dare spessore a voci che provengono da paesi non ancora completamente omologati al cinismo rassegnato dell’Occidente delle classi agiate. E si attenua, di conseguenza, l’impatto di altre opere sgranate lungo il percorso che conservano un reale afflato di denuncia e di allarme. Come il grande pannello fotografico di Wen Feng. In primo piano una terra sabbiosa e desertica. Sullo sfondo la mostruosa visione di un grappolo di grattacieli che sfidano il nulla imparziale di un cielo azzurrino. Si chiama Ordos, è una nuova città che sta sorgendo in Cina. Un nome e un progetto che sembrano evocare una delle tante città invisibili di Calvino, ma che sono solo lo spettacolo di una disfatta umana. Oppure i due grandi assemblaggi di fotomontaggi del cinese Du Zhenjuan che evocano il caos di una nuova Babele: schegge di palazzi e monumenti che sguazzano in un tripudio di maschere, figure umane, folla anonima. D’accordo qui almeno si avverte la presenza rovinosa, il caos indistinto che lo Sviluppo, evocato nel titolo della mostra, si porta appresso. Ovunque. La missione dell’arte? Salvare frammenti di memoria, sembra dirci l’arista panamense Damian Ortega squadernandoci davanti come sussulti di nostalgia le foto di piccole e povere casette di periferia, e rafforzandone la vista con un muro di mattoni che ha innalzato davanti.

Suggestioni di superficie, comunque. Non sembra che nei piani dei curatori prevalga la voglia, il bisogno di indicare, e tanto meno gridare, alternative possibili. Anche sfogliando le pagine dell’Atlante, l’arte che ci viene proposta sembra un prodotto addomesticato, congelato a bassa temperatura emotiva. Forse per questo l’opera che con più crudezza ci mette faccia a faccia con l’insopportabile profezia di un futuro ancora più invivibile è un filmato impregnato di estetismo, patinato come una rivista d’alta moda, firmato dal collettivo russo AES+F. Un’allegoria al rallentatore che ripropone, in uno spazio oltre il tempo, il lusso grottesco della Cena di Trimalcione. Da lì veniamo, verso lì noi tutti, eredi di un impero in declino, torneremo.

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