Periscopio (globale)
Il vecchio Turner
Ritratto degli ultimi anni di vita artistica di William Turner: il tempo delle disperazione creativa, testimoniata anche dagli acquerelli in mostra fino a fine agosto a Roma
Non mi ha sorpreso troppo, in fondo, leggere della passione dell’ottantenne Ungaretti per gli ultimi acquerelli di William Turner. In una lettera da Londra del luglio 1967 a Bruna Bianco, il giovanissimo estremo amore, Ungaretti dice di provare una vera e propria estasi per “l’ultimo Turner, il Turner senza più altro che colore, il Turner che più di un secolo fa aveva avuto il coraggio per primo di non essere più un pittore accademico, ma libero, solo pittore, solo poeta esprimendosi in pittura” (Lettere a Bruna, Mondadori, 2017).
Del pittore londinese, e della mostra romana dedicatagli al Chiostro del Bramante, si è già parlato su queste colonne – clicca qui per leggere l’articolo. Mi limiterò quindi a consigliarne ancora una volta la visita, c’è tempo fino al 26 agosto. Perché le novanta opere esposte, una selezione del famoso lascito o “Turner Bequest”, meritano davvero di essere viste. Qui, invece, m’interessa maggiormente mettere in luce alcune particolarità dell’ultima fase dell’artista, le stesse che, insieme a Ungaretti, hanno colpito e affascinato negli ultimi trent’anni la maggior parte degli appassionati d’arte.
Intanto, come avverrà in seguito per Kafka, se qualcuno non si fosse messo di traverso per ignorare la volontà testamentaria, noi di queste opere non sapremmo né vedremmo nulla. Per Turner contavano infatti sì e no un centinaio di dipinti a olio, mentre considerava gli acquarelli poco più che studi, tanto da lasciarli spesso incompiuti, e il suo ordine era stato dunque di distruggere tutto. Sebbene oggi ci piaccia considerarlo non tanto come seguace e perfezionatore della pittura paesaggistica di un Lorrain, ma semmai come l’illuminato precursore tanto dell’impressionismo, quanto dell’arte astratta, una specie di combinazione di pre-Monet e pre-Rothko – a proposito: sarà l’adorazione per Turner a indurre Rorhko a eseguire e donare i Seagram Murals alla Tate Gallery – , questa non era l’opinione del pittore stesso, immerso semmai pienamente nella poetica del Romanticismo e in qualche modo spiazzato egli stesso dalle sue ultime opere, che sospetto siano sorte quasi a dispetto dei suoi intendimenti. Opere che peraltro all’epoca i critici più conservatori, ma anche alcuni tra i più illuminati, mostrarono di non capire affatto.
Prendiamo solo John Ruskin, il più influente teorico e critico d’arte dell’età vittoriana nonché scopritore dei preraffaelliti, colui che definì Turner esemplare per l’approccio alla natura e ai suoi fenomeni. Cresciuto in una famiglia benestante, abituato sin da giovanissimo a percorrere tanto l’Inghilterra quanto l’Europa in lungo e in largo, Ruskin era versato tanto nelle arti quanto nelle scienze, avendo seguito studi di biologia, geologia e mineralogia. Un personaggio ben diverso, insomma, dall’azzimato imbecille che compare nell’irrisolto e statico film di Mike Leigh dedicato a Turner. Nel primo volume del suo Modern Painters (1843) Ruskin esorta i giovani artisti non solo ad andare incontro alla natura, ma – come appunto Turner, che addita loro a mo’ d’esempio – a farsene pervadere e a cercare di penetrarne i segreti con l’intuizione e la passione. Come al solito in questi casi, gli entusiasmi vanno però relativizzati. Intanto, Turner stesso, in relazione anche all’altra interpretazione data da Ruskin dei suoi quadri come allegorie morali, commentò che forse il critico vedeva nella sua pittura qualcosa che mai aveva inteso dipingere. E appena tre anni dopo, nel 1846, Ruskin avrebbe mostrato di non capire più le ultime opere di Turner, qualificandole di “indicative of mental disease” (indice di un disturbo mentale). Se consideriamo che la madre di Turner era stata ricoverata in manicomio quando l’artista aveva dieci anni, l’ingenerosa definizione di Ruskin (che pure era un amico ed estimatore…) acquista un aspetto quasi oltraggioso.
In realtà, per inquadrare questi ultimi lavori di Turner bisogna tener conto di molti elementi: intanto, e per prime, le declinanti condizioni di salute negli ultimi quindici anni di una vita che all’epoca poteva considerarsi ben lunga (settantasei anni). Affetto dal morbo di Parkinson, che gli aumenta gradualmente il tremore alle mani, Turner si automedicava bevendo alcolici in quantità, il che lo portò ad aumentare di peso e a diventare diabetico. Il diabete a sua volta ebbe ripercussioni sulla vista, già compromessa dalle cataratte. Per non parlare, poi, dell’intossicazione da piombo dovuta ai colori stessi; pare fra l’altro che per risparmiare – era molto attento alle spese e dotato di notevoli capacità commerciali – Turner prediligesse colori di scarsa qualità (e forse particolarmente tossici), tanto che ancora oggi si teme per la tenuta a lungo termine dei suoi acquerelli. Non è quindi denigratorio domandarsi se le incredibili sfumature di colore degli ultimi tempi non siano anche il prodotto di un’alterazione della loro stessa percezione.
Il fatto di vivere un’esistenza così lunga, e di veder quindi scomparire uno dopo l’altro tutti i suoi interlocutori, da Thomas Lawrence a Constable a Reynolds, ha verosimilmente contribuito a un certo isolamento, inducendo l’artista a ignorare le mode passeggere, a ripiegarsi su se stesso e a intensificare la ricerca su quei temi e argomenti che lo avevano accompagnato lungo tutta l’attività artistica. In questo senso, la ricomparsa anche a distanza di decenni dei paesaggi montani, in particolare svizzeri, della valle del Reno, dell’incanto di Venezia o di manifestazioni meteorologiche e ambientali estreme (incendi, nebbie fittissime, tempeste di neve, piogge torrenziali, onde anomale con relativi naufragi ecc.) non deve stupire più di tanto e rappresenta la risposta al disagio derivante dal venir meno dei contatti umani e professionali di sessant’anni d’attività. Non dimentichiamo che Turner non aveva nulla d’alternativo, faceva parte da sempre dell’establishment: da quando a quattordici anni era entrato alla Royal Academy of Arts, insegnandovi in seguito per più di vent’anni (seppur con scarso successo, le sue spiegazioni essendo per lo più incomprensibili), fino a quando, alla morte del padre – un ex barbiere e creatore di parrucche che aveva riversato tutto il suo affetto sull’eccentrico figlio, al punto da fargli d’assistente per trent’anni -, aveva sofferto una profonda crisi depressiva e si era gradualmente ritirato da tutti gli impegni mondani.
Anche la scelta di eliminare dalla sua pittura tutti gli orpelli, lo story-telling, i personaggi, le caratterizzazioni, e ridurre tutto a luce e colore sembra a noi post o post-post-moderni un colpo di genio, il ponte lanciato da Turner verso la nostra contemporaneità; resta tuttavia il dubbio che, se mai Turner si fosse deciso a finirle, queste opere incompiute o “colour beginnings”, come lui stesso le chiamava, le avrebbe forse di nuovo riempite di quanto oggi ci sembra superfluo e allora rappresentava invece la conditio sine qua non della pittura, gli elementi senza i quali un quadro, fosse un acquarello o peggio ancora un olio, non era considerato vendibile. Tant’è che questi acquerelli, che Turner non esponeva volentieri e quasi nascondeva, alla sua morte sono stati ritrovati nello studio ancora arrotolati e poi sono finiti per lunghi anni, dopo la meticolosa catalogazione di Ruskin, nei depositi del British Museum, prima di essere riscoperti e destinati alla Tate Britain. (Fra l’altro, Ruskin non ebbe alcuna remora a tagliare, per esigenze pratiche, il celebre Lake Geneva with the Dent d’Oche from above Lausanne del 1841, uno degli splendori esposti alla mostra romana, seguendo una prassi all’epoca del tutto abituale.)
Leggenda vuole che Turner abbia pronunciato sul letto di morte, nell’estremo tentativo di contrastare il colera, un’ultima frase, “Sun is God”, che sembra quasi l’eco del “Mehr Licht” goethiano. Non si sa se sia vero, o appunto solo una leggenda, ma sarebbe una degna sintesi dei servigi che proprio alla luce del Dio sole ha reso con tutta la sua opera, e in particolare proprio con gli ultimi acquerelli. I quali saranno pure spesso incompiuti, ma in ogni caso risultano di una bellezza incommensurabile e straziante.