Roberto Verrastro
A proposito de “La sorella nell'aldilà”

Il giallo di Nasira

La storia di Nasira, una ragazza curda in Germania raccontata Andree Hesse tra politica e tradizioni popolari, segnala una nuova, importante tendenza della narrativa tedesca

Rashid El Tahir è conosciuto come stimato chirurgo plastico libanese giunto in Germania nel 1991, a causa della guerra civile nel suo Paese. Lavora presso l’ospedale di Celle, città a nord di Hannover nel Land settentrionale della Bassa Sassonia. La figlia Layla, tossicodipendente non ancora diciottenne, si è suicidata lanciandosi sotto un convoglio della metropolitana di Hannover, tragedia che ha condotto sua moglie alla dipendenza dalle benzodiazepine e al ricovero in una clinica psichiatrica. Layla era fidanzata con il 18enne curdo Mehmed Duman che, a ridosso del Natale 2005, esce dal carcere minorile in cui era detenuto per spaccio di stupefacenti e lesioni personali. La sera del 1° gennaio 2006 Mehmed, disoccupato, prende in prestito la BMW del fratello maggiore Ilhan, che lavora nell’autofficina di un amico, per recarsi verso le 19.30 a un appuntamento in una piazza di Celle, dove non incontrerà la ragazza conosciuta in discoteca la sera precedente. Confuso tra gli scoppi degli ultimi petardi della notte di San Silvestro, un proiettile calibro 7,62 lo trafigge all’altezza dell’occhio destro, sparato da una certa distanza con un fucile G3 prodotto dall’azienda tedesca Heckler & Koch e usato dagli eserciti di mezzo mondo. È il caso su cui indaga il 41enne Arno Hennings, ispettore capo della polizia criminale di Celle, nel romanzo dello scrittore tedesco 52enne Andree Hesse La sorella nell’aldilà (Rowohlt, 416 pag., 9,99 euro, ebook 5,99 euro), inedito in Italia e ristampato nel 2017 dopo la prima edizione, nel 2008, di una delle opere più rappresentative della tendenza del giallo tedesco a intrecciarsi con la politica internazionale e la storia contemporanea.

La vicenda, ambientata nella prima settimana del 2006 in Germania, la principale destinazione europea dell’emigrazione curda, prende avvio dalla leggenda raccontata ai bambini curdi sulle origini del loro popolo, fuggito sui monti in un lontano passato per liberarsi dal crudele tiranno Zohak, che dominava una terra allora chiamata Scharazur. La piccola Nasira apprende questa leggenda all’età di dieci anni dallo zio quando, nel marzo del 1987, nella provincia nord irachena di Dohuk, non molto distante dal confine con la Turchia, la sua famiglia vede arrivare gli elicotteri che bombardano i villaggi curdi con i gas letali. Due anni dopo, nel 1989, si contavano 182mila curdi uccisi e 3mila villaggi distrutti. Architetto del massacro fu Ali Hassan Al Majid, noto al mondo come «Alì il chimico», il cugino di Saddam Hussein che, il 24 giugno del 2007 (il romanzo è stato ristampato in coincidenza con il primo decennale dell’evento), fu condannato a morte per impiccagione dal Tribunale speciale iracheno. Accolse la sentenza con tre parole: «Allah sia ringraziato».

La madre di Nasira dà alla luce la figlia minore rischiando di morire di parto, per questo la neonata viene chiamata Jian, «vita», ma l’appuntamento con la morte è solo rimandato a pochi mesi dopo, a quel marzo del 1987 in cui un ufficiale dell’esercito iracheno, mentre la donna è a terra rantolante per aver inalato i gas di un bombardamento, la finisce con una rivoltellata alla testa davanti agli occhi di Nasira, perché la famiglia non intende rivelare dove sia il marito, andato sui monti ad arruolarsi tra i peshmerga, i guerriglieri curdi, e mai più rivisto. Per Nasira comincia la fuga verso la Turchia insieme alla sorellina Jian, allo zio, alla zia incinta e al cugino, che porta tutti a destinazione tranne la stessa Nasira, travolta dalle acque di un fiume che la famiglia deve attraversare lungo il tragitto.

A Celle, la sera del 1° gennaio 2006, sul luogo del delitto si radunano numerosi curdi, tra i quali Dosto Yavsan, che afferma di essere il biraye achrete, il fratello d’aldilà della vittima, lasciando perplessi l’ispettore Hennings e i suoi colleghi, che non capiscono il significato dell’espressione e gli chiedono se abbia a che fare con il Corano. «Non siamo musulmani», risponde Dosto sprezzante, «siamo curdi, curdi yazidi». Giunto a casa della vittima, Hennings riconosce una ragazza che si era dileguata dalla scena del crimine: si tratta della bella Ronahi Duman, che si presenta come la sorella di Mehmed. Dosto Yavsan, che lavora presso un’associazione culturale curda, nell’occasione spiega all’ispettore che gli yazidi credono che, dopo la morte, l’anima prosegua il suo cammino in un’altra dimensione, perciò in vita devono scegliersi un fratello d’aldilà, ovvero qualcuno (non necessariamente un parente) che, durante la cerimonia funebre, accompagnerà simbolicamente il defunto verso la nuova condizione. Obbligatorio almeno una volta nella vita è il pellegrinaggio a Lalish, in Iraq, sede della tomba dello sceicco Adi, l’incarnazione di Tausi Melek, il supremo dei sette angeli dello Yazidismo. Nell’ottobre del 2005, pochi mesi prima del delitto, vi si è recato lo stesso Dosto, che è originario della Turchia, mentre i Duman vengono da un piccolo villaggio iracheno dall’altra parte del confine. Dosto aggiunge che Ronahi, il nome della sorella della vittima, significa «Aurora», l’inizio di un nuovo giorno.

Ronahi Duman perde la sua patente nell’auto dell’ispettore Hennings, che le dà un passaggio dopo averla incontrata casualmente in città: Ronahi si chiama in realtà Jian ed è nata a Dohuk, in Iraq, il 12 novembre 1986. Mehmed Duman era nato ad Hakkari, in Turchia, il 31 marzo 1987. Li differenziano solo quattro mesi e mezzo di età: è escluso che i due fossero fratelli. Arno Hennings scopre inoltre che al dottor Rashid El Tahir, misteriosamente scomparso da Celle durante le indagini sull’omicidio di Memhed Duman, è rimasto il figlio maggiore Saif, fratello della defunta Layla. Saif studia a Monaco di Baviera e, poiché odia il padre per i maltrattamenti in famiglia, in una conversazione telefonica ricorda all’ispettore che in Germania vivono molti stranieri che, sfruttando un vuoto della legislazione tedesca, vi erano giunti fingendo di aver perso i documenti in rocambolesche fughe dal Libano, una polveriera in cui era impossibile rispedire espatriati di dubbia provenienza. La soluzione del giallo è suggerita da Dosto Yavsan: nello Yazidismo l’essere è rotondo come una palla, che comprende infiniti cerchi, senza inizio e senza fine, e dove oggi è l’uomo, l’altro ieri era già la sua ombra.

Alla polizia viene segnalato che, in prossimità di una catapecchia di legno a pochi passi dalla ferrovia, è stata avvistata una donna armata e con il volto coperto da una kefiah. All’arrivo di Arno Hennings e della sua squadra, la donna dà fuoco alla baracca in precedenza cosparsa di benzina, rimanendo vittima dell’incendio, mentre la polizia riesce a salvare Ronahi Duman e il dottor El Tahir, che vi si trovava sequestrato. L’incendiaria era stata conosciuta da Dosto Yavsan a Lalish: è la peshmerga Beriwan, nome di battaglia che significa «dal fiero portamento», rimasta sfigurata in volto durante la guerra in Iraq del 2003. Dosto l’ha portata in Germania come potenziale paziente del chirurgo plastico Rashid El Tahir. In quest’ultimo Nasira alias Beriwan, la sorella che i familiari credevano morta e che fu salvata dai peshmerga durante la fuga del 1987, ha riconosciuto l’ufficiale medico dell’esercito iracheno che sparò alla madre delle due sorelle. El Tahir viene arrestato per crimini contro l’umanità e come mandante dell’omicidio di Mehmed Duman, il cugino partorito nel 1987 dalla zia di Nasira e Jian dopo aver attraversato il confine con la Turchia. A sparare, per denaro e odio razziale, è stato il neonazista Daniel Grabow, con un fucile G3 fornito dal soldato britannico Thomas Peel, pesantemente minacciato dal rissoso Mehmed dopo un diverbio. (Celle è una città confinante con Bergen, sede del campo di concentramento di Bergen-Belsen in cui morì Anna Frank, che fu liberato dalle truppe britanniche, rimaste in loco fino al 2015). Un ventennio prima, lo sguardo di Nasira al carnefice di sua madre significava un arrivederci detto in curdo per chiudere uno degli infiniti cerchi: cha hafiz.

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