Perché il pallone non è quadrato
Un calcio al caso
Da tempo, il calcio rincorre un'utopia: correggere il caso con lo scientismo. Strategie, tattiche, supporti medici e tecnologici... Insomma un lungo, inutile inseguimento della perfezione, ossia la negazione del gioco. E del suo fascino
La teoria non lasciava spazio al dubbio. Rivera, Altafini, Maldini, Vernazza, Salvadore, Liedholm, Trapattoni; in porta Ghezzi, in odore di kamikaze per uscite al limite del suicidio. Un Milan da far tremare vene e polsi a qualsiasi avversario. Inseguiva lo scudetto, spalla a spalla con madama Juventus e la concittadina Inter. Il 30 aprile 1961 incontrava a San Siro il Bari, che ansimava per non venir risucchiato in serie B. Routine, insomma, risultato scontato.
Ma qualcosa non torna. Il Milan attacca, sparacchia bordate da ogni parte, ma dopo una ventina di minuti va a segno il Bari con un Carneade, tal Cicogna. Vabbe’, un incidente di percorso, capita; ma c’è tempo per rimediare. Ancora all’attacco. Venticinque, trentacinque, trentasette: ed ecco che il modesto Bari si permette addirittura di raddoppiare. Gol d’autore, questa volta. È firmato Virgili, per gli aedi del pallone Pecos Bill per il ciuffone biondo, in anni precedenti centravanti della Fiorentina scudettata, che spende in Puglia gli ultimi spiccioli di un’onorata carriera.
Lassù qualcuno ama il Milan. Si fa male di brutto, ad una spalla, il portiere del Bari, Magnanini. Una bazza. Non esistono ancora i cambi. In porta si sistema Pecos Bill. Magnanini, secondo consuetudine dell’epoca, si colloca all’ala sinistra: due piedi possono comunque far comodo. Dovrebbe diventare una gara di tiro a segno per i milanesi. Infatti arriva un’autorete a galvanizzarli, e c’è oltre mezz’ora da giocare. Giù a testa bassa. Invece è ancora il Bari a segnare. Morale della favola: vincono (3-1) i pugliesi. Il Caso ci ha messo brutalmente lo zampino e ha mandato a carte quarantotto teoria e pronostici. Malgrado il trionfo milanese, il Bari imboccherà la strada della serie B. Il Milan vedrà filare la Juventus verso lo scudetto.
Sia chiaro: questa non vuol essere una lacrimosa laudatio temporis acti pallonara, una mesta lamentazione funebre per il pallone d’antan ch’era tanto bello. Solo un tentativo, di certo maldestro, approssimativo, di capire come si sia evoluto non tanto il gioco del pallone, che in effetti si è allontanato mille miglia dalle origini, quanto la filosofia che lo informava quando nacque, l’impalcatura concettuale che è alla base anche di un fenomeno in apparenza elementare come il gioco.
Che cosa hanno in comune Cevenini, Fossati, De Simoni – pionieri dello sport più popolare in Italia, che il 15 maggio 1910, all’Arena di Milano, bagnarono la prima partita della nazionale italiana con un altisonante 6-2 sulla Francia – o i mitici Valentino Mazzola, Boniperti, Rivera, con Balotelli, Insigne, Bonucci, i prodi che in Francia non fecero l’impresa? A parte l’esiguo denominator comune del pallone, pressoché nulla. Non la massa muscolare, quadruplicata da un trentennio; non la tecnica, serializzata; non le astruserie tattiche che dovrebbero interpretare in campo.
Dietro lo schermo del meccanismo competitivo, il gioco rappresenta una sfida all’ignoto, e più precisamente al Caso che si balocca, gioca con le vite degli uomini, li stana dall’illusione che due più due faccia sempre e comunque quattro. È un impudente stuzzicare gli dei perché concedano il loro favore. Se gioco a poker e mi capita un tris di jack, a meno di illuminazioni divine o extrasensoriali, scarterò le due carte che ritengo superflue, pregando Apollo o Dioniso (i testi sacri non sono perspicui sul punto: quale divinità amministra il gioco?) di darmi una mano. Se il nume acconsente, mi posso ritrovare con un full o addirittura con un poker; se fa orecchie da mercante, resterò col tris di partenza e molti patemi su come e quanto puntare.
Questo per l’excursus teoretico. Bene, il calcio da anni produce un inane sforzo per ridurre a zero, o almeno di contenere l’intervento del Caso, di schierare in campo un’apodittica necessità. Uno scientismo degli stenterelli si aggrappa e replica un dogma scientista che dilaga un po’ in tutte le pieghe della società.
Postilla d’obbligo, a scanso equivoci: la scienza è un’attività nobile, vitale per l’umanità; ma lo scienziato si muove nel dubbio per acquisire quelle nozioni che aumentino di un ette il nostro microscopico sapere, consapevole di agire sempre sotto la spada di Damocle dell’errore, tanto da contemplare metodologicamente la falsificabilità postulata da Karl Popper. Il dogma scientista procede invece per fendenti conoscitivi, certezze assolute, incontrovertibili, dogmi appunto. Il dubbio deve eclissarsi. Il Caso, chi era costui?
Un tempo, si è detto, non esistevano i cambi. Nascevano situazioni curiose, avvincenti. Un altro esempio. Sempre nel 1961, ma haccene più di millanta prima della rivoluzione copernicana del pallone. Gennaio, l’otto. All’Olimpico di Roma si affrontano Roma e Sampdoria. Situazione molto più equilibrata che in Milan-Bari. Infatti, a pochi minuti dalla fine, le due squadre si trovano in parità, 2-2. Inoltre la Roma gioca praticamente in dieci; Giacomo Losi, un coriaceo marchigiano, difensore capace di imbrigliare fior di attaccanti, claudicante, è relegato secondo copione all’ala. Gli spettatori già sfollano, ma con un gesto alla Enrico Toti, su un calcio d’angolo Losi riesce a saltare e il suo colpo di testa finisce in rete. Delirio sugli spalti e nelle cronache della partita. Il Caso crea un mito; Giacomo Losi assurge a Core de Roma.
Quella dei cambi è stata una delle mosse principali per rendere le partite sempre più simili allo sviluppo di un teorema: altrimenti quel satanasso del Caso, tra espulsioni ed infortuni, poteva anche decidere che si finisse per giocare in sette contro dieci. La rivoluzione ha coinvolto anche gli allenatori; un tempo personaggi defilati, si sono trasformati in raffinati teorici, nobilitati dall’appellativo di mister, in sagaci strateghi i cui poderosi algoritmi valgono oro.
Ma il cavallo di Troia, in questa escalation parascientifica, è la tecnologia. Un primo passo si era mosso con la moviola, che avrebbe dovuto consentire di appurare se il piedino di Altafini era un millimetro più avanti, dunque in fuorigioco, o più indietro, quindi regolare, del piedone di Burgnich. Non sempre i responsi della moviola sono cristallini, il che ha il merito di alimentare il dibattito settimanale. Col tempo sono apparsi nelle trasmissioni sportive materiali di supporto, grafici e misurazioni geometriche, così da eliminare ogni ombra di dubbio, di un gol o di una vittoria maturati per esclusiva volontà del Caso.
Ma la divinità beffarda poteva contare ancora su un fido alleato: gli arbitri. Questi hanno il gravissimo difetto di essere umani, e come tali soggetti all’errore, rannicchiato in potenza dietro ogni loro decisione. In casi rarissimi l’errore può essere calcolato: anni addietro venne coniata l’espressione “sudditanza psicologica” per designare il timore reverenziale che quegli insindacabili giudici potevano provare nei confronti delle squadre potenti. In casi ancora più rari, l’arbitro poteva aver ceduto alla promessa di una congrua ricompensa se sbagliava nel modo giusto.
Così, ultimo mirabolante ritrovato della rivoluzione copernicana, è giunto il Var (video assistant referee), che ha trasferito la moviola direttamente sul campo. Destinata a correggere gli “errori chiari”, locuzione non proprio chiarissima. Un protocollo rigido, come è giusto in ambito scientifico, circoscritto a quattro situazioni: gol ritenuti irregolari, rigori, espulsioni e identità confuse nei cambi. Affiancato da due assistenti, l’arbitro entra in conclave, interroga l’oracolo tecnologico e, se il responso svela l’errore, fa pubblica ammenda e cambia decisione.
Per farla breve, gli uomini si affannano persino sui campi di calcio a imporre la mordacchia al Caso, perché levi il suo imponente naso dalle loro faccende. Fatica improba quanto vana. Lo insegnano i poeti – categoria dalla vista più lunga dei comuni mortali. Jamais un coup de dès ne abolira le hasard (mai un colpo di dadi cancellerà il caso), versificava ermeticamente nel 1897, cioè in pieno secolo di apoteosi scientifica, Stéphane Mallarmé. Malgrado la differenza patrimoniale e tecnica, la piccola e gloriosa Spal puo’ riuscire, se il Caso le sorride, a fermare la strapotente Juventus, che è un po’ come se una piroga bloccasse una portaerei. Ma gli uomini sono cocciuti, insistono nel tirare i loro daducci. E il Caso da millenni seguita a sbellicarsi di risate.