La politica fatta coi tweet
Tutti figli di Salvini
L'uomo forte del momento nelle sue continue esternazioni si propone sempre come un "padre". Ma che tipo di padre? Quello che aggredisce il nemico e protegge il suo territorio. Il peggiore, insomma
Anche da ministro Matteo Salvini viaggia a una media di oltre venti tweet al giorno. È un politico, insomma, che tiene particolarmente alla comunicazione, privilegiando i concetti semplici e la frasi lapidarie. Quindi particolare attenzione va ai social e all’esternazione tramite breve commento televisivo. Non può sfuggire che, una volta installatosi al vertice del governo, in coabitazione con Di Maio, ma con qualche propensione all’occupazione del massimo dello spazio, Salvini abbia fatto uso pressocché continuo della parola papà, riferendola a se stesso e alle sue scelte da ministro, che verrebbero fatte insomma tenendo conto di quello che potrebbe essere il comportamento del padre di famiglia.
Già un paio di settimane fa, di fronte all’accusa di Saviano di essere un «uomo che vuole far annegare le persone», ha dichiarato di voler querelare lo scrittore «non da ministro ma da papà». Non si capisce in cosa possa differire la querela, ma è chiaro come il ministro dell’Interno voglia far intendere che il suo comportamento sia dettato dalla necessità di difendere non se stesso, ma i cittadini italiani, che sono in qualche modo i suoi figli.
In un tweet del 12 giugno, di fronte alla notizia di un agente che spara, uccidendolo, a un giovane, che stava aggredendo un suo collega, Salvini scrive: «Non solo da ministro, ma da cittadino italiano e da papà starò vicino a questo poliziotto che ha fatto solo il suo dovere». Lo stesso giorno, ospite di Lilli Gruber su La7 afferma che gli altri possono attaccarlo e minacciarlo quando vogliono, ma «io – dice – da ministro e da papà non mollo e lo faccio per il bene di tutti».
Dello stesso tenore è un’esternazione su Facebook contro i volontari delle Ong. Nell’occasione scrive che «questi signori», che a suo dire manovrano «il business dell’immigrazione clandestina», dovranno cercarsi porti non italiani dove dirigersi. Tutto questo è fatto naturalmente «da ministro e da papà». Il giorno prima, di fronte all’evoluzione del caso Aquarius aveva espresso «grande soddisfazione da vice premier, come ministro e come papà, per come si va risolvendo la questione». Aggiunge che «evidentemente alzare la voce paga». E chi è che, almeno in una famiglia intesa in maniera alquanto tradizionale, può alzare la voce, se non il papà? Ma se Salvini ritiene di agire come padre, da chi è composta la famiglia e chi sono i figli?
Qualcuno parla di shock di fronte alla sua idea di un censimento dei rom? Salvini spiega su twitter di essere preoccupato per «quei poveri bambini educati al furto e all’illegalità». Insomma l’intento, anche se non sottolineato in questo caso dalla parola papà, è quello comunque del padre di famiglia, che pensa all’educazione dei più piccoli.
Da qualche tempo la consueta irruenza verbale di Matteo Salvini appare dunque legata all’immagine del genitore maschio. L’obiettivo è quello che l’associazione si estenda all’idea di un ministro preoccupato a difendere i propri figli. Sta di fatto però che i papà, nell’applicazione del proprio ruolo, possono anche eccedere nei comportamenti. È il caso dei padri, nemmeno poco numerosi, che alla partita di calcio del figlio undicenne, non hanno esitazione, pur di fronte allo sgomento imbarazzato della prole, a lanciarsi in contumelie e invettive ingiuriose nei confronti dell’arbitro e dei giovanissimi avversari, rei di non permettere al figlio una vittoria senza ostacoli. In questo caso il papà difende soprattutto un territorio, dove ritiene di essere la sovranità assoluta, e coloro che vi abitano all’interno, che dunque, più che congiunti, sono suoi sudditi.
Il meccanismo è lo stesso per quei padri che prendono a pugni gli insegnanti che non hanno promosso i loro figli. Insomma, lo slogan potrebbe essere “prima i figli”, al di là delle regole e della saggezza, coordinate che per i padri dovrebbero essere imprescindibili.
E cosa dire dell’eccessiva animosità del ministro, che non si contiene nel linguaggio, cosa che sarebbe opportuna per l’istituzione che rappresenta, ma tende ad “alzare la voce”, ad utilizzare espressioni volgari ed arroganti? È come quei padri che urlano di continuo, che condiscono le proprie comunicazioni familiari di imprecazioni e bestemmie, e poi pretendono che i figli sappiano essere educati e di buone maniere.
Per Massimo Recalcati, che alla figura del padre ha dedicato ricerche e libri, «la funzione del padre è quella di testimoniare che la vita umana è attraversata dal limite». Papà Salvini sembra essere invece interessato a esaltarlo il limite, che non attraversa la vita ma la contiene, la costringe in un ambito ristretto, quello della casa-nazione, dentro il quale è solo il papà a conoscere il bene di tutti e quindi a ordinare.
Recalcati dice anche che «il padre-padrone, il padre-Dio, il padre-bussola che ha l’ultima parola sul senso della vita e guida in modo infallibile i propri figli è una figura che si è esaurita dopo il trauma virtuoso del ’68». Ma questo forse Salvini non lo sa o non lo vuole sapere. Lo psicoanalista afferma inoltre che «solo i fondamentalisti cercano di recuperare quella immagine attraverso il Dio folle che comanda la morte dell’infedele riabilitando una rappresentazione padronale della paternità». Questo forse il ministro dell’Interno lo sa bene. Chissà quando cominceranno a capirlo gli italiani.