A proposito di “Ranocchio salva Tokyo”
Paladini quotidiani
“Ranocchio salva Tokyo” è la storia straordinaria di un eroe ordinario. Tra graphic novel e manga, racconto per bambini e allegoria per adulti, veglia e sogno, Haruki Murakami racconta come un Ranocchio e un impiegato dallo spiccato senso del dovere e della giustizia salvano la città dal terremoto
«Quando Katagiri rientrò nel suo appartamento, ad attenderlo c’era un ranocchio gigante. Eretto sulle zampe posteriori, superava i due metri. E aveva anche un fisico massiccio. Katagiri, alto appena uno e sessanta e mingherlino, si sentì sopraffatto dal suo aspetto imponente. Mi chiami Ranocchio, disse». Comincia così Ranocchio salva Tokyo, l’ultimo libro surreale di Haruki Murakami, pubblicato da Einaudi, tradotto da Giorgio Amitrano. Gli amanti del genere, come gli stessi appassionati dello scrittore giapponese, sapranno già che il lungo racconto è tutt’altro che inedito: nel 2013 Murakami lo aveva, infatti, incluso in una raccolta, dal titolo Tutti i figli di Dio danzano, scritta all’indomani del terribile terremoto che nel 1995 colpì la città di Kobe.
Onirico, sospeso tra veglia e sogno, che ricorda alcuni straordinari racconti di autori immaginifici come Kafka e Buzzati, Ranocchio salva Tokyo è un libro tutt’altro che semplice. La prima difficoltà sta nel definirlo: all’interno le illustrazioni di Lorenzo Ceccotti, in arte LRNZ, potrebbero far pensare ad una graphic novel impegnata, ad un manga per palati raffinati, o più semplicemente ad un libro per bambini. In realtà mi piace pensare che Murakami abbia scritto questo racconto per grandi e piccini, proprio perché questi lo leggessero con i primi e viceversa. Katagiri è un uomo qualunque, un impiegato di quarant’anni con la valigetta come se ne vedono tanti nelle grandi città, timido, solitario, che si è impegnato dopo la morte dei genitori affinché le sorelle si sposassero felici. Mezzo calvo, con la pancetta, piedi piatti, insomma «una persona molto comune» che non può far a meno di dire e pensare: «Tutto quello faccio è dormire, alzarmi, mangiare, andare al gabinetto. Che vivo a fare, non lo so neanche io!». Eppure un Ranocchio gigante – e qualcuno potrebbe ammettere la possibilità che si tratti di una moderna allegoria, quella che Todorov chiamava «esitante», benché l’animale si dichiari autentico: «Non sono una metafora, né una citazione, né una decostruzione, né un prototipo, nessuna di tutte queste cose complicate!» – gli piomba in casa perché Katagiri, «stonato, basso e miope», lo aiuti a vincere una difficile battaglia contro un enorme Lombrico che intende provocare il 18 febbraio alle 8.30 del mattino un sisma dagli effetti devastanti con epicentro alla filiale di Shinjuko della Cassa di credito e sicurezza di Tokyo dove lavora il protagonista. Perché proprio lui? È la domanda che Katagiri si pone sin dall’inizio e con lui il lettore. Come potrà salvare centocinquantamila persone? Non ha nulla dei supereroi che siamo abituati a vedere sul grande schermo, né di quelli a cui vengono appuntati al petto medaglie al valore o che riempiono le pagine della letteratura con mirabili imprese.
«Io ho bisogno del suo coraggio e del suo senso di giustizia! […] A salvare Tokyo può essere solo una persona come lei.» così lo rassicura Ranocchio e a pensarla così è lo stesso Murakami, che nel discorso di accettazione del Jerusalem Prize aveva affermato: «Tra un muro alto e solido e un uovo che si rompe contro di esso, starò sempre dalla parte dell’uovo. Sì, non importa quanto il muro abbia ragione e quanto l’uovo abbia torto, io starò dalla parte dell’uovo. […] Ma se ci fosse un romanziere che, per qualsivoglia ragione, scrivesse stando dalla parte del muro, che valore avrebbero le sue opere?». Ecco Katagiri è l’uovo (uomo) che si rompe e proprio questa fragilità fa di lui il paladino quotidiano, quello che continua a compiere il proprio dovere senza sentirsi dire grazie da nessuno, senza aspettarsi niente. Ranocchio salva Tokyo mette in scena la vicenda dell’uomo qualunque, di quello che per dirla con le parole di Rodari ha «nel cuore sempre un cavaliere pieno di coraggio pronto a rimettersi sempre in viaggio», narra lo scontro sempiterno del bene contro il male. E se il finale disorienta il lettore, insidiando in lui il dubbio che si sia trattato solo di un sogno, Murakami non lascia adito a incertezze: è per le persone oneste come Katagiri che Ranocchio sta cercando disperatamente di salvare Tokyo.