A proposito di viaggi
L’allegoria America
In tempi di connessioni globali, con "Ah l’America! Un’esplicita allegoria" di Giorgio Manganelli si riflette sull'attitudine al viaggio e al suo resoconto
La terra del viaggio è sempre bifronte per chi sta per giungervi: da una parte oscillano stereotipi e aspettative, dall’altra sorprese, imprevisti, scoperte impensabili. Più si accorciano le distanze tra il luogo di partenza e la meta d’arrivo, più si fanno vive le proiezioni dell’io: ombre prensili danno luogo a previsioni, timori, speranze, pregiudizi. Una volta arrivato a destinazione, però, come spesso accade (specie ai giorni nostri), il viaggiatore largisce pareri assoluti sul luogo che attraversa dalla sua posizione privilegiata di turista e, tra una sosta e un’esplorazione, consiglia e sconsiglia, incoraggia, raccomanda o devia, appropriandosi in poco tempo di quell’orlo di mondo che non gli appartiene e di cui non conosce che la provvisoria superficie. Ma i tempi fortunatamente sono sempre diversi e mutano, così come i viaggi ed anche i viaggiatori; nonostante ciò, persino ora che i trasporti sono più agevoli e gli itinerari a basso costo sono raddoppiati, l’attitudine al viaggio non si impara da nessuna parte né tantomeno si può dire sia proporzionale alle opportunità materiali di chi passa il tempo a fare e disfare valigie.
Se all’attitudine al viaggio si aggiunge quella al suo resoconto, la questione si fa decisamente più complessa: è certo che viaggiare abbia che fare principalmente con la percezione di sé all’interno di uno spazio, ma quando si parla di Giorgio Manganelli, oltre allo spostamento fisico che dà luogo al viaggio vero e proprio, ne esiste un altro parallelo, pieno di divagazioni, sconfinamenti, deviazioni, vere e proprie parentesi interiori ed esteriori che trasformano un normale reportage in una disgressione funambolesca, senza un vero inizio né una vera fine. Dunque anche Ah l’America! Un’esplicita allegoria (Mds, pag. 96, 12 euro) edito nel settembre del 2017 per la collana Lumina curata da Giampaolo Vincenzi, è l’ennesima prova (se mai ce ne fosse ancora bisogno) della singolare concezione che Manganelli ebbe del viaggio e del viaggiare. Alla fine degli Anni Ottanta, la redazione de Il Messaggero commissionò a Manganelli, tra gli altri, un reportage sull’Argentina e Buenos Aires.
L’America si era mostrata più di una volta come un miraggio sulla strada di Manganelli, ma così come varie volte era apparsa e si era fatta più vicina, si era altrettanto dileguata, un po’ per casualità, un po’ per le combinazioni del tempo e in parte anche per il perspicuo disinteresse – del tutto libero e privo di asti – che Manganelli provava per il nuovo continente. Lo racconta la figlia Amelia, nella deliziosa prefazione al libro e accenna alla «miseria nera» dell’Italia post-bellica, un paese distrutto eppure ancora vivo, in cui Manganelli tentava di farsi strada come letterato e traduttore. Era quella l’Italia in cui lo scrittore si accingeva a diventare padre per la prima volta e quando i pagamenti delle sue traduzioni arrivavano in ritardo non c’era rassicurazione che tenesse, il pane a casa andava portato. In quegli anni, alcuni lontani parenti emigrati in Uruguay avevano fatto sapere che, se ci fosse stato bisogno, avrebbero accolto Manganelli e la sua famiglia in casa loro, lì avrebbe certamente trovato un lavoro più sicuro. Tutto finì però, con un nulla di fatto, forse un ripensamento o chi lo sa, ma Manganelli in America del Sud non ci andò più, ingranò pian piano con i suoi lavori in Italia e non espresse più il desiderio di andarvi.
I casi della vita gli riproposero l’occasione dopo decenni, quando egli doveva aver abbondantemente dimenticato la girandola delle opportunità mancate. Arrivando in Sud America a distanza di anni, già soltanto buttando un occhio giù dal finestrino dell’aereo, quella prospettiva sembrò dare ragione a quella combinazione di destino e refrattarietà che da quei luoghi lo aveva sempre tenuto lontano. Scorge così una Buenos Aires inedita, avviluppata nella nebbia, dove il pilota ha persino difficoltà ad atterrare: e pensare che lui quella città l’aveva immaginata calda e soleggiata, attraversata da un tepore gradevole, accesa di colori. Giunto a destinazione, Manganelli inizia a percorrere la capitale argentina in lungo e in largo, i suoi occhi si aprono all’osservazione di una distesa interminabile e variegata di stili architettonici, strade, palazzi, insegne lampeggianti, piazze dedicate, statue imponenti; una città, questa Buenos Aires, che gli sembra «un’allucinazione», una scenografia studiata di tutto punto, cucita perfettamente su un territorio nudo, vergine di tempo umano, tanto bella quanto non vera, truccata, bardata a mestiere, tanto digiuna di storia da voler marcare con decisione tutti i suoi possibili e impossibili segni di arcaicità. Manganelli attraversa la città come un piccolo fantasma, ne esamina l’eclettismo, ne osserva la sconfinata ed inimmaginabile grandezza, ascolta i suoi suoni ovattati, scomposti, sente molti rumori ma fatica ad avvertire il ritmo, si sofferma dinanzi alle insegne, ai cartelli pubblicitari, ai monumenti enormi, ai ristoranti affollati, «ma perché – si chiede – tutto è uguale e tutto allude a qualcosa di diverso?». Tutto in città gli suggerisce che possono esistere luoghi che cercano di imitarne altri e, nel bel mezzo di questo tentativo, perdono di vista il modello; così sagoma e ombra si confondono, si annacqua la sorgente e si mescolano forme e colori, nella tavolozza del tempo, della rapidità, dell’affermazione. Ecco che Buenos Aires gli ricorda che esistono realtà talmente ben inventate e truccate da fare dell’irrealtà la loro unica realtà. «L’America del resto – afferma Manganelli – sembra un’Europa più grande, non è così? Mentre mi arrendo e depongo il microfono mi dico no, non è così. Forse l’America, forse Buenos Aires non esistono. Sono un trucco strepitoso; un effetto speciale; un’illusione ottica».