Una raccolta di racconti
Il libro dei miti
Anticipiamo un racconto dalla raccolta "La tomba del tuffatore" nel quale l'autore, Nicola Bottiglieri, ripercorre alcune tappe della sua formazione in rapporto ai miti classici
Al Festival della letteratura di Salerno, oggi, sabato 16 Giugno, alle ore 18 verrà presentato il libro di racconti del nostro Nicola Bottiglieri, La tomba del tuffatore (Multimedia Edizioni, Salerno 2018). Thomas Stern Eliot dice che bisogna viaggiare nel tempo, come si viaggia nello spazio. Andare nei luoghi remoti del mondo, ma anche nei secoli bui dei nostri millenni. Non solo la Terra del Fuoco o il corno d’Africa, anche Virgilio, Omero, il gruppo del Laocoonte e le pitture rupestri di Altamira. Ma se uno viaggia nello spazio e nel tempo fusi insieme, allora può vedere il padre degli dei nel laghetto dell’EUR di Roma, trovare in una isola dei Caraibi il fratello di Telemaco, riconoscere il volto di Apollo nei tratti di un somalo che vende conchiglie a Gesira, vicino Mogadiscio, e recitare i versi di Omero quando gioca con una palla di vetro nella quale una sirena di plastica si copre di neve al polistirolo. Infine, può seppellire con lacrime d’inchiostro il proprio amico suicida nella tomba del tuffatore lasciandolo riposare nell’eternità del mito. Questo succede quando uno viaggia nello spazio e nel tempo fusi insieme, quando confonde i meridiani con i paralleli, i secoli con i minuti, gli dei con i compagni di scuola. Ma se vogliamo porre fine alla vertigine del tempo e ritrovare gli albori della geografia, allora bisogna ritornare ai luoghi dai quali si era partiti, pur sapendo che essi non ci sono più, perché il tempo è un fiume che corre all’incontrario e distrugge quanto prima ha fatto fiorire. Solo allora capisci che non sei stato tu a tracciare la strada ma è stata lei a seguirti fino a portarti nel luogo dal quale non sei mai partito. Dove la casa e la strada coincidono da sempre, il passato ed il presente si fondono insieme ed il futuro altro non è che la più luminosa delle incertezze. Per gentile concessione, pubblichiamo un estratto del racconto che dà il titolo al libro; il ricordo di un amico con il quale l’autore ha condiviso l’adolescenza.
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Seppi che Silvano si era ucciso buttandosi sotto un treno. Non aveva aspettato la macchina seduto sui binari, ma si era lanciato contro come se si tuffasse nell’aria. Lo stabilirono i periti, perché trovarono pezzi del corpo sparsi intorno ai binari. Fece una capriola nell’aria, andando in frantumi al cozzo con il metallo.
Un giorno decisi di andarlo a trovare, anche se non sapevo dove fosse sepolto. Andai ai giornali locali con una borsa di lacrime in gola, mi risposero «non pubblichiamo notizie di suicidi per rispetto alla persona». Andai al cimitero di Salerno a leggere gli elenchi dei morti, «negli ultimi dieci anni non è stato sepolto nessuno con quel nome, se poi come dice lei è un suicida sarà difficile trovarlo». Dopo molte ricerche immaginai che potesse essere sepolto nel paese del Cilento dove era nato.
Così qualche anno dopo, mentre ero in vacanza ad Acciaroli, all’alba di un mattino di agosto mentre mia moglie ed i figli dormivano, presi la macchina deciso di andare a vedere se fosse sepolto nel paese natale, portando il mio primo libro, al mio unico vero amico. Era un libro di viaggi fatti attraverso le case di Neruda in Cile.
Non fu difficile trovare il cimitero, né forzare il cancello d’ingresso ancora chiuso. Però mi sembrò superbia farmi accompagnare dal libro fin dentro lo spazio recintato della morte, perciò lo lasciai in un cestino all’ingresso,. Entrai e presi a leggere i nomi delle tombe senza incontrare quella che cercavo.
Fumai un sigaro nell’attesa del guardiano, il quale venne nella tarda mattinata, ed insieme leggemmo gli elenchi dei defunti messi per ordine alfabetico.
«I suicidi non vengono sepolti nei luoghi consacrati».
«E dove lo hanno messo allora, sul ciglio della strada o in mezzo ad un bosco?»
Restai a lungo nei pressi del cimitero, entrai ed uscii più volte, poi chiesi dove fossero sepolti i morti senza nome, se ve ne era qualcuno.
«Un milite ignoto vuol dire? O un camorrista?»
«Un viandante trovato per terra, volevo dire».
Il guardiano scosse la testa, guardandomi con fare sospettoso.
«Tutte sepolture legali, qui dentro. Ho da fare, la saluto».
Ritornai al cestino, ripresi il libro e mi misi in macchina a pensare dove fosse nascosto quel corpo che una volta avevo considerato essere parte di me. Lessi qualche pagina e mi resi conto che essere andato nelle selve dell’Araucania in Cile a cercare le case di Neruda non era stato così bello, come dormire nel tubo di cemento della spiaggia di Sapri, abbracciati per il freddo della notte, turbati dalla reazione che la nostra presenza aveva destato nell’animo della ragazza. che ci aveva dato un passaggio.
«Tu non capisci l’effetto che produci sulle donne!» mi aveva detto più volte in quel viaggio.
«Forse l’effetto che produciamo tutti e due, quando ci vedono insieme».
Ritornai fra le tombe e per caso vidi a ridosso di un muro, nascosto in un angolo appartato fra una cappella ed un albero ombroso un muro bianco, sul quale vi era scritta una data. Sulla parete senza marmo, né croci o lumini, una scritta frettolosa fatta con vernice nera diceva 30. 11. 1981. Era la data della sua morte.
Tuffarsi contro un treno era un peccato che nessuno voleva perdonare.
Appoggiato al muro, ho immaginato le sue ore prima dell’ultima vera fuga. Di sicuro era di pomeriggio, si era vestito da viandante, con pochi soldi in tasca, il bocchino senza sigaretta, i capelli lunghi, il maglione nero a collo alto, recitando a perdifiato: «Oziosa giovinezza/a tutto asservita/per delicatezza/ho perduto la vita».
Di sicuro aveva fatto tutto in fretta e di sicuro si era dato una grande spinta per andare incontro al treno che arrivava. Aveva 35 anni, 9 mesi e pochi giorni, quando lasciò questa terra, due anni in meno di Rimbaud. Non era andato in Africa , dopo aver smesso di scrivere, ma era ritornato a passeggiare con la testa china nella corsia centrale del lungomare di Salerno, quella in ombra, riservata ai fidanzati.
Quando vado a Paestum in campeggio, d’estate, con i miei figli, o quando vado a rivedere ogni tanto “la tomba del tuffatore”, dietro ogni parola, ogni ricordo, ogni pietra, ogni albero che vedo c’è il ghigno del suo sorriso, il gesto di saluto fatto con la mano dalla cabina del camion, il tuffo feroce verso un mondo che non conosce il mare.
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