Attilio Del Giudice
Storie d'amore e disamore quotidiano

Le nuove coppie

«Io ero molto delicata e romantica e tu dicevi senza peli sulla lingua che mi avevi sognata nuda, con le giarrettiere nere e aggiungevi che nei tuoi sogni io mi scatenavo e facevo cose… terribili»

Il gelo, l’amore, la foglia. Si chiamava Ciro. Una vita di lavoro. Da bambino, nonostante venisse considerato precoce nell’apprendimento, a solo otto anni, fu tolto dalla scuola e costretto dal padre a dare una mano nel lavoro di venditore ambulante. Uscivano col carretto di notte per raggiungere il mercato generale e fornirsi di frutta e verdura da rivendere nelle strade periferiche della città. D’inverno, Ciro soffriva il gelo alle mani. «Mettile a coppetta – diceva il padre – e pisciaci dentro, così si riscaldano». Ciro lo faceva, ma il giovamento era minimo.

Passarono gli anni, con la tenacia e la volontà, don Ciro divenne un commerciante di cereali all’ingrosso e riuscì a conquistare per sé e per la sua Adelina una discreta agiatezza economica.

Adelina a sedici anni, ebbe un aborto, poi la sorte per sempre le precluse la gioia della maternità, ma la loro unione restò solida e profonda. Un amore coniugale raro, protetto da un calore senza scintille, sicuro, confortevole e che durò tutta la vita.

Don Ciro, dopo la morte di Adelina, considerava il mondo come un corpo estraneo, che ormai non lo riguardava più. Veniva ogni giorno al baretto della stazione verso le dieci, poi, alle undici prendeva il trenino locale per il cimitero dove lei era sepolta. Lui le parlava e per ogni questione chiedeva il suo parere. Aveva adottato un singolare codice comunicativo. Per esempio: guardava una foglia per terra, se rimaneva ferma, significava una risposta negativa, se il vento la muoveva, la risposta era un “sì!”. Un giorno propose un quesito importante: se dovesse, cioè, tirare avanti o raggiungerla nell’ altro mondo. La foglia fu mossa dal vento, inequivocabilmente.

Don Ciro tornò a casa, caricò la carabina, mise in bocca la canna e sentì che era fredda, ricordò il gelo di quando usciva di notte col padre. Poi, naturalmente, il grilletto…

* * *

La difesa dei diritti. Porca miseria, non trovo il cellulare.

– Guarda bene!

– Niente, non c’è.

– Forse l’hai lasciato nel ristorante, quando hai chiamato tuo marito. È opportuno chiedere lì, se lo hanno visto lo conservino, lo andiamo a prendere subito.

– Che hanno risposto?

– No, non c’è, non è uscito fuori. Hanno guardato dappertutto.

– Io sono andata nel bagno per telefonare, forse è lì che bisognerebbe vedere.

-Hanno visto anche lì. Speriamo che chi lo trova non ne faccia un uso ricattatorio.

Lo so che sei andata nel bagno. Tradisci tuo marito da 15 anni, ma ancora lo chiami “Amore”,” Piccolino mio”, ”Cocco bello”, “Tesoro” e cose del genere. Epiteti zuccherosi da adolescenti che io non devo sentire, ma che purtroppo, casualmente, ho sentito una volta, ed è difficile, ti assicuro, metabolizzare queste stronzate. Sei andata nel bagno per chiamare il cocco bello, il tesoruccio, in gran segretezza.

– Certe cose non le puoi capire! Io ho tradito mio marito, perché mi sentivo troppo sola, ma non volevo fargli del male e potevo e posso, tranquillamente, mostrargli affetto senza particolare sacrificio. Era un mio segreto del resto. Una dimensione intima, personale, nella quale non hai alcun lasciapassare per insorgere con le tue sequenze offensive e accusatorie, con la tua goffa satira goliardica.

– E di questi segreti quanti altri ne hai?

– Non lo saprai mai. È nella natura delle donne avere dei pensieri in fondo all’anima, che non si possono spiegare, talvolta intraducibili, pensieri antichi che risalgono all’infanzia, alla famiglia, alle prime violente rivelazioni della vita. Noi abbiamo il diritto di custodire questi segreti. Gli uomini ne potrebbero fare scempio barbaramente, senza ritegno, con la rozza sensibilità, che li distingue.

Non mi chiedere altro!

* * *

Nozze d’oro. “Certo che qui è cambiato tutto. Guarda, ti ricordi quella pasticceria siciliana, dove compravamo i cannoli, che ti piacevano tanto? Non c’è più. Ora vedo un negozio di scarpe. Anche il teatro è stato sostituito dalla discoteca. La fontanella. Quella almeno è rimasta. Non ti dice niente?”

– “Che mi dovrebbe dire?”

– “Come, non ti ricordi?”

– “No!”

– “Che tristezza! Ma è mai possibile, Osvaldo? Proprio non ricordi? Mi hai baciato per la prima volta.”

– “Chissà come mi venne in mente?”

– “Sei un disgraziato! Ma come, siamo venuti qui per festeggiare le nozze d’oro, per rivivere momenti felici e questo rimbambito non si ricorda un cavolo di niente. Che vergogna! Mi baciasti e mi facesti anche una proposta indecente”.

– “Tu eri d’accordo?”

– “Ma come ti permetti? Io avevo ricevuto un’educazione di quelle che si davano alle ragazze di quel tempo, un’educazione che non contemplava il sesso, la volgarità, solo qualche bacetto che dovevo confessare ogni domenica a don Larco, che era il nostro parroco”.

– “Che bella soddisfazione!”

– “Voi maschi andavate in quelle case dove c’erano quelle donne e solo uno svergognato come te poteva fare quel genere di proposte a una ragazza per bene. Io ero molto delicata e romantica e tu dicevi senza peli sulla lingua che mi avevi sognata nuda, con le giarrettiere nere e aggiungevi che nei tuoi sogni io mi scatenavo e facevo cose… terribili. Da raccontare come in un film porno, sostenendo che si dovesse fare qualche prova nella realtà.”

– “Non ti farò più proposte, sei contenta? “

– “Che c’entra, siamo marito e moglie da mezzo secolo. Sei scemo?”

– “No, mi dispiace, ora è arrivato il momento di essere una persona a modo, rispettosa dei valori delle fanciulle , delle famiglie e della Chiesa. Non è mai troppo tardi”.

– “Ma che cazzo dici?”

* * *

Assunta. Forse non aveva fatto nemmeno le elementari per intero, ma aveva intuito, curiosità e sapeva ascoltare. Assunta faceva la prostituta e nel suo mestiere era onestissima. Anzi era generosa e non portava mai fretta. Se si accorgeva che un ragazzo si bloccava, perché era alle prime armi, lei ci metteva tutto il mestiere per placargli l’ansia.

Un ufficiale in seconda, che la conobbe al porto, prese per lei una cotta terribile e aveva deciso di sposarla e, forse, lo avrebbe fatto, se non avesse avuto moglie e prole e se non fosse stato scoperto. Assunta, in verità, lo seppe per una circostanza fortuita e non ne fece una tragedia, si limitò a dirgli che non era il caso di ingannarla e che non doveva tradire la madre dei suoi figli.

Povero ufficiale in seconda, piangeva come un bambino. “Io volevo sistemare tutto e poi te ne avrei parlato, ti giuro che te ne avrei parlato”, disse.

– “Sistemare tutto? Che vuoi dire? Lasciare una donna, senza arte né parte, con tre figli piccoli in mezzo a una strada e metterti con una prostituta? Questo significa per te sistemare tutto? Su, ragazzino, non piangere è arrivata l’ora di diventare un uomo! Guardi, che guardi? Vuoi fare sesso? Sei un cliente, puoi farlo, puoi farlo un’altra volta, paghi la marchetta, 30 euro. Veloce, poi sparisci e mi fai il piacere di non farti vedere più.”

– “Amore, amore mio, perché parli così?”

– “Non sono l’amore tuo. Sono Assunta, la puttana del porto.”

Un vento freddo di tramontana le metteva in subbuglio i lunghi capelli neri e sembrava ancora più bella, una meravigliosa divinità del mare che il capitano in seconda aveva perduto per sempre.

* * *

Il peccato ideale. Ettore era un giornalista politico e opinionista, lei, Dorina, era laureata in lingue e specialista nella traduzione simultanea. Si incontrarono in un convegno e si riconobbero dopo quasi trentacinque anni. Erano stati compagni di scuola. Lei era stata molto bella, un mito al liceo De Sanctis e, per i timidissimi come Ettore, una stella irraggiungibile. Conservava un bel corpicino in carne, un bel sorriso e un tono affettuosamente ironico. Insomma una donna piacevole. Ettore ne avvertiva il fascino.

Ormai lui aveva vinto da anni la timidezza e, se anche non esibiva mai una rozza sfacciataggine, si sentiva sicuro di sé, del suo spirito e, soprattutto, della sua virilità. Stavano lì, in quel bar a sorseggiare un aperitivo, lei sembrava interessatissima alla narrazione che lui con sobrietà e autoironia faceva della sua vita, cosicché Ettore pensò che se le avesse chiesto di andare in un albergo per consumare un rapporto sessuale, non avrebbe fatto un buco nell’acqua. Si trattava di trovare parole simpatiche e non volgari, quando, all’improvviso, squillò il cellulare. Era Marta, la figlia sedicenne. “Papà, mamma ha avuto un incidente, si trova al Santo Eugenio. Niente di grave, solo una commozione cerebrale. Ha chiesto di te”.

L’anima, la psiche, non so come dire: il nucleo profondo dei neuroni subcorticali, quella cosa primitiva, indipendente dai processi della cognizione e delle categorie morali, si fece sentire, fece sentire la sua inconfutabile presenza: la rabbia carognesca, come se quella telefonata della figlia avesse violato la sua intimità, il desiderio segreto che covava dagli anni della giovinezza.

“Devi andare, disse Dorina, vuoi che ti accompagni?”. “No, grazie. Ho la macchina a due passi”.

Si abbracciarono e si baciarono sulle guance, frettolosamente. A Ettore sembrò che quel saluto cancellasse la violenza erotica di un peccato non consumato, estraneo alla realtà, ideativo e, forse, ideale.

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