Danilo Maestosi
Negli spazi di Villa Torlonia a Roma

Labirinto Cambellotti

Una grande mostra ripropone il genio esagerato e multiforme di Duilio Cambellotti, maestro d'arte applicata che inventava a tavolino l'esotismo liberty e dialogava, molto a distanza, con il futurismo

Oltre duecento opere, documenti, foto e cimeli provenienti dall’archivio dell’artista, dai musei a lui dedicati nell’Agro Pontino, dall’Istituto del teatro greco di Siracusa, dalla Galleria d’arte moderna e da collezionisti privati. Davvero imponente la grande mostra che rende omaggio al genio proteiforme di Duilio Cambellotti (1876-1960): scultore, pittore, illustratore, cartellonista, ceramista, progettista d’arredo urbano, inventore di gioielli, scenografo e costumista per teatro e cinema. Una mostra finanziata da un inedito cartello di privati, il gallerista Fabrizio Russo e il mecenate Emmanuele Emanuele. E in scena fino all’11 novembre in tre prestigiosi edifici di villa Torlonia, ribalta ideale per restituire la cornice e il clima d’epoca: il Casino del Valadier, il Casino dei Principi e la Casina della civette, che prende il nome proprio da una delle splendide vetrate realizzate da Cambellotti.

Per ritrovare una monografica così esauriente bisogna tornare indietro di un ventennio all’esposizione con cui fu inaugurato il museo Macro di via Nizza. Ma a questa rivisitazione i due curatori, Daniela Fonti e Francesco Tetro, hanno impresso un taglio più divulgativo che mette in fila e documenta tutti gli innumerevoli campi d’attività dell’autore. Con l’intenzione di confermare il ruolo di innovatore e apripista che Cambellotti si è conquistato sulla scena dell’ epoca ,senza ignorarne i risvolti caratteriali e le oscillazioni creative.

Il risultato è, nel bene e nel male, un senso di sovraffollamento e spaesamento che aggredisce il visitatore. Giusto che una mostra non strizzi l’occhio solo ad un pubblico pigro che cerca solo riconferme, ma poi questo toglier certezze va governato. La prima sensazione è di inoltrarsi, a volte di perdersi, in un labirinto di suggestioni in conflitto, di tempi che si accavallano, uno ieri allontanato a passato remoto e un passato così prossimo da sconfinare nell’oggi. Davvero troppe le facce e le maschere che questo poliedrico autore esibisce e indossa nella sua carriera creativa attraversando da defilato protagonista le alterne e burrascose atmosfere della prima metà del Novecento. E una biografia che disorienta anche i critici che cercano di inquadrarlo in schemi di abitudine come un maestro del liberty. La esclusiva scelta di campo delle arti applicate , certamente, lo iscrive, nel flusso di questa corrente che contagiò tutta l’Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento, rimodellando il gusto della borghesia e l’arredo delle maggiori capitali. Con altri autori e produttori dell’art nouveau, Cambellotti condivide l’intenzione di democratizzare il senso della bellezza e portarlo in tutte le case. Ma è una condivisione a distanza, priva di quella febbre cosmopolita e positivista che anima i grandi teorici del liberty. Cambellotti segue i loro dibattiti, si aggiorna sulle loro proposte, a volte persino ne imita le soluzioni formali, ma solo attraverso la lettura di riviste specializzate e testimonianze di amici giramondo. Senza alcuna esperienza diretta. Nessun soggiorno d’istruzione a Parigi, a Londra, a Vienna.

Lui da Roma e dall’Italia si è allontanato una sola volta. Nel 1898. Un viaggio dopo la fine del suo corso scolastico che lo porta a Napoli e poi in Grecia a Costantinopoli. Un contatto con la culla del mondo classico e un assaggio d’Oriente che sovraccaricano la sua immaginazione, lasciandogli dentro un impronta che riaffiora continuamente nei suoi lavori. Ma non lo spinge a fare altre esperienze di viaggio in Africa o in Asia. Cambellotti gratifica il suo esotismo – bagaglio culturale quasi obbligato in un Italia che cominciava allora ad ubriacarsi di imperialismo e colonialismo – collezionando foto e cartoline. Prendendone spesso in prestito le eleganti soluzioni formali per infondere leggerezza ai suoi manifesti. Il resto è operazione di fantasia.

Vari anni dopo, invitato a illustrare le Mille e una notte in un’edizione tascabile per ragazzi, cui la mostra riserva un gustoso e imperdibile siparietto, sforna un repertorio di immagini sinuose, architetture arabescate, colori squillanti che sembrano partoriti da uno dei tanti pittori orientalisti che dalla metà dell’Ottocento avevano preso a viaggiare su e giù per i paesi mussulmani e il terzo mondo indiano mettendo in posa dal vero beduini, fachiri, odalische e cammelli. Lui si limita ad immaginare. Un po’ come faceva Emilio Salgari, un suo quasi coetaneo, riempiendo i propri romanzi di coinvolgenti descrizioni di jungle, palmeti, mari color turchese, turbanti e riti tribali, che non aveva mai visto e aveva ricostruito e inventato a tavolino su descrizioni da biblioteca. Una condizione controcorrente d’isolamento rispetto ai grandi centri e alla grandi vetrine della capitali d’Occidente cui Duilio Cambellotti paga sicuramente dazio: « In Italia – ammette Daniela Fonti – le quotazioni sono in continua ascesa. In Europa e nel mondo è quasi sconosciuto».

Forse più utile a restituire a Cambellotti la corona di primattore di livello internazionale è il tentativo esplicito anche se appena abbozzato dei curatori di questa mostra di illuminare i suoi rapporti col futurismo, la prima e la più longeva delle avanguardie del Novecento. Rapporti che passano attraverso due figure chiave: Giacomo Balla e Umberto Boccioni. Non a caso il percorso si apre proprio con due citazioni che li chiamano in scena. Balla attraverso uno splendido ritratto che inquadra in penombra il volto severo e barbuto di Cambellotti chino sull’opera, un gioiello, che sta forgiando nel suo studio. I due erano uniti da una lunga amicizia che comincia all’inizio del secolo quando insieme partecipano all’impresa umanitaria di un gruppo di intellettuali socialisti guidato da Giovanni Cena e Sibilla Aleramo e impegnato a scolarizzare le masse di braccianti stagionali che abitavano l’inferno paludoso dell’Agro pontino. E poi prosegue ininterrotto negli anni seguenti.

Boccioni, invece, compare con questo stralcio di lettera riprodotto sulla parete d’ingresso: «…venivo fresco fresco da tutta quella sequela di tradimenti che fu l’ultimo tempo di Roma. In quel naufragio non vedo ora galleggiare che Cambellotti e forse forse Balla». Datata 1908 è una desolata bocciatura della capitale dell’epoca , dei suoi intellettuali e dei suoi salotti, al termine di un soggiorno in cerca di stimoli e alleanze. Spiegabile, ma solo ad esperti che ne conoscono la chiave, il parere in sospeso su Balla, che poi sarebbe stato uno dei soci fondatori del futurismo: Boccioni lo frequentò come allievo di pittura e come un allievo insoddisfatto lo giudicò, poco convinto dalla sua rigorosa tecnica divisionista alla quale preferiva l’interpretazione più libera , a pennellate sfioccate dello stesso stile dei maestri dì area milanese.

Per comprendere l’ammirazione e la stima di Boccioni per Cambellotti, che continuò coltivata a distanza, come attestano lettere e dediche – registrate in un saggio in catalogo – anche dopo la svolta del primo manifesto futurista del 1909, può aiutare la vista di due opere scultoree tra le più note di Cambellotti realizzate nel 1911 per la Capanna dell’Agro pontino , una delle attrazioni di contorno dell’Expo che celebrava a Roma il mezzo secolo dell’Unità d’Italia.

La prima è un grande fregio in gesso che ritrae una mandria di cavalli bradi al galoppo: le frenesia delle zampe resa da uno straordinario accavallarsi di segni e di geometrie, quasi una profezia delle sintesi che i futuristi avrebbero adottato per esaltare il senso del movimento. La seconda è un vaso di terracotta, il bordo sbocconcellato da cui spuntano come sorprendenti presagi di vita primordiale le teste stilizzati dei bufali che Cambellotti aveva visto sollevarsi proprio così dal fango in una delle sue gita tra le paludi pontine. La grande intuizione di Cambellotti che poi anche Boccioni fece sua è l’idea di uno sguardo che partendo dall’osservazione del vero coglie e trasforma in segno i riverberi dell’ambiente in cui il soggetto che si sta modellando si muove. Certo poi le strade dei due non possono che dividersi. Al corpo boccioniano che nella celebre scultura Forme dinamiche nella continuità dello spazio si sfrangia in ogni direzione per catturare il vento invisibile dell’azione fa da specchio il blocco compatto ed enigmatico del guerriero ritratto nella Corazza di Cambellotti, che la mostra espone nel loggiato del Casino nobile. Due capolavori. Ma il primo insegue il futuro del tempo che fugge, il secondo lo congela in un relitto d’epopea.

Pensate alla Città che sale: Boccioni sposa e traduce in fervore di colore e di segno l’idea di un divenire, un progresso inarrestabile. E guardate ora quello splendido manifesto di Cambellotti, intitolato La Falsa Civiltà, esposto qui in mostra. Il volto distruttore e ingannevole della modernità: su uno sfondo brumoso un operaio massiccio come un ciclope sta fissando una strada di sampietrini che divora un tratto di campagna. Epico e allo stesso tempo insensato quello sforzo umano, che distrugge la Storia e la verità della Natura, pensa Cambellotti. Lui che pure dedica la sua intera vita ad impreziosire le città in trasformazione, a diffondere con i suoi oggetti la bellezza negli interni della borghesia, è schierato a difesa di un’altra trincea: le radici imperdibili dell’antico, dei valori ancestrali dell’uomo e della società, degli archetipi misteriosi che regolano il corso delle cose, degli eventi, delle forme e persino del piacere e del gusto.

Antico e moderno: ecco è questo costante conflitto che anima e accende di originalità la sua forza creativa. Un’oscillazione che certo crea spaesamento ma ne fa un artista di assoluta grandezza. Queste due polarità in perenne contraddizione ci offrono il filo d’Arianna per districarsi nel labirinto di questa mostra sovrabbondante di cimeli che parlano tutti insieme con voci diverse, timbri e qualità diseguali. Ma ad aiutarci a sfrondare è lo stesso Cambellotti. Quella sottile ma efficace distinzione con cui rivisita le sue creazioni. «Opere» battezza quei lavori in cui davvero riconosce la sua volontà, la sua necessità d’artista. «Avventure», quelle in cui l’ispirazione si adatta gioco forza alla convenienza e alle attese della committenza e dell’occasione.

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