Periscopio (globale)
La (s)fortuna di Quasimodo
Il 14 giugno 1968 moriva il Premio Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo. A cinquant’anni dalla morte, una riflessione sui motivi per cui vale la pena ricordare il poeta e il traduttore
I premi letterari fanno più male che bene, tanto a chi li riceve quanto a chi ne viene privato. Tra tutti questi premi, il più importante, il Nobel per la letteratura, è anche il più pericoloso. Non entrerò qui nel merito della decisione dell’Accademia di Svezia di non assegnarlo nel 2018, per tutta una serie di beghe interne che con la letteratura hanno poco a che spartire. Ma in luogo del conferimento del premio, secondo me sarebbe stato utile sospendere, almeno per l’anno in corso, quell’articolo dello statuto che impedisce di assegnarlo a persone decedute, e approfittare quindi della situazione straordinaria venutasi a creare per insignirne in memoriam l’immenso Philip Roth, prima vittima della pessima gestione degli ultimi anni, magari con un’umile letterina di scuse al posto della tradizionale motivazione. Ma così non andrà, e non posso che rammaricarmene, Roth restando in ogni caso, per me, il vero laureato implicito degli ultimi vent’anni. Un’altra vittima del Nobel, ma stavolta per averlo ricevuto, è stato Salvatore Quasimodo, che vorrei ricordare qui in occasione del cinquantenario della morte. Perché vittima? Ma perché il Nobel ha contribuito a potenziare un’avversione generale nei suoi confronti che al di là dei suoi meriti o demeriti perdura ancora oggi, tanto che non mi sorprenderei troppo se la ricorrenza fosse poco meno che ignorata.
Quasimodo risulta piuttosto odioso, per diverse ragioni. Intanto per il percorso esemplare, di frequentazione, nei suoi quarant’anni di carriera, di tutte le scuole poetiche più importanti, dagli ermetici ai neorealisti, percorso lungo il quale, partendo da echi dannunziani e in minor misura pascoliani, si allinea alle correnti letterarie egemoni e sugge sempre nuova linfa per le sue creazioni poetiche, diventando presto un punto di riferimento per i poeti coevi, ma senza in realtà innovare granché o, come scriveva Bàrberi Squarotti in un saggio del 1958 (prima del Nobel, quindi), restando a metà fra solennità insistita e immagine preziosa, ma meramente decorativa. Desta inoltre antipatia l’apparente facilità con cui un semplice geometra, del tutto alieno da studi classici, costruisce la propria carriera avvalendosi dei legami familiari – il cognato Elio Vittorini lo presenta al gruppo di Solaria, con cui pubblica nel 1930 il primo libro – e delle amicizie (con Gatto, con Montale, con Zavattini ecc.) per insinuarsi e insediarsi negli ambienti, quello fiorentino, quello ligure, in seguito quello milanese, che nell’Italia letteraria degli anni Trenta e Quaranta contavano di più. Detestabile è poi anche per il successo popolare e di pubblico che ottiene nell’ultima fase, pur andando sostanzialmente controcorrente rispetto alle tendenze dominanti nella poesia del secondo Novecento, insistendo cioè su un canto, a volte anche distintamente retorico, fatto ancora di effusioni liriche, quando la creatività poetica era orientata semmai verso un nuovo ripiegamento semicrepuscolare o verso tentativi avanguardistici.
E a maggior ragione odioso lo rende il premio Nobel, per il quale viene preferito a Ungaretti e Montale, poeti a lui indiscutibilmente superiori. Viene preferito soprattutto per la rinomanza della sua nuova poesia d’impegno civile dell’immediato dopoguerra che avrà traduzioni in altre lingue, non ultima quella in svedese, proprio del 1959, a firma dell’allora presidente della commissione del premio, Anders Österling. A questo punto si scatena la bagarre, quand’è troppo, è troppo, si dicono in molti. A cominciare da Emilio Cecchi, di cui è famoso l’incipit dell’articolo ospitato dal Corriere della Sera («A caval donato non si guarda in bocca…»). Più feroce ancora è forse il commento di Luigi Russo, che tocca oltretutto una delle questioni oggi fondamentali nell’apprezzamento di Quasimodo, quando scrive, dopo aver messo in dubbio la competenza dei critici svedesi: «non si sa quello che di lui diranno i secoli, e se ne parleranno» (il corsivo è nostro). Lasciamo stare poi Ungaretti, toccato sul vivo, che in una famosa lettera a Jean Lescure lo qualificherà come perroquet (pappagallo) e clown capace solo d’imitazioni ed esercizi di retorica e, in altra occasione, con molta chiarezza lo descriverà come un «imbroglione sostenuto dall’Istituto di Cultura Italiana di Stoccolma, dall’ineffabile cretino Bo e da altri cretini internazionali» (là dove l’affondo coinvolge anche Carlo Bo, da sempre uno dei massimi estimatori dell’opera di Quasimodo). Del resto, la ruggine era antica: Ungaretti non l’aveva forse accusato di plagio già nel 1932 per il titolo della raccolta Oboe sommerso, secondo lui troppo simile al proprio Porto sepolto? Avversione reciproca, comunque. Per Quasimodo, come scrive in una lettera a Glauco Natoli – l’amico immortalato in una delle poesie più belle della prima fase, Vento a Tindari –, Ungaretti non era che un pazzo e una «figura secondaria del campo della poesia». Quanto al più prudente Montale, che di Quasimodo era stato negli anni Trenta amico e alleato contro il comune nemico Ungaretti (detto “la iena egiziana”) e che, a differenza di Ungaretti, sarà almeno risarcito sedici anni dopo con un Nobel riparatorio, nel 1959 si limita a dire che «c’è modo e quasi-modo di fare poesia». Questo per quanto riguarda i rivali diretti. Quanto ai critici, se si astrae dal fedele e minoritario Bo, essi avevano sostanzialmente abbandonato o messo fra parentesi Quasimodo, pur riconoscendone la vitalità e le capacità di assorbimento, da almeno un decennio, da quando aveva cioè cominciato a crearsi il mito del poeta come “vate” civile. C’è chi aveva del resto avvertito sin dagli esordi il rischio di un «verbo senza carne» (Macrì) o un eccesso di costruzione (Solmi) o ancora «una finzione di profondi sensi che diventano nonsensi» (De Robertis), chi aveva denunciato troppo controllo sui testi (Vigorelli), chi lo aveva accusato di guardare solo all’orizzonte d’attesa del lettore (Tedesco) e di essere sostanzialmente ambiguo e fumoso (Valgimigli); se la critica militante di sinistra tende ora a difenderlo per ragioni etico-politiche più che strettamente poetiche, i più giovani (Mengaldo, ad esempio) lo accuseranno inoltre di non saper o voler oltrepassare la nobile retorica.
La scappatoia, comoda un po’ per tutti, è stata allora quella di distogliere l’attenzione dalla creazione poetica vera e propria, ritenuta nell’insieme deficitaria, e di volgerla all’attività di traduttore. Di solito, la traduzione poetica è considerata una ciliegina sulla torta, un passatempo cui il poeta indulge a tempo perso; in questo caso, invece, è stata valutata – in particolare per il volume dedicato ai lirici greci nel 1940 – come il miglior contributo di Quasimodo alle patrie lettere. Ora, un discorso approfondito sulle versioni di Quasimodo è in realtà oltremodo complesso da fare. In alcuni casi, e penso qui soprattutto alle traduzioni da Shakespeare per Strehler, esse sono tributarie dell’occasione teatrale per la quale furono composte e rispondono pertanto a tutta una serie di esigenze che possono portare a scelte stilistiche, colloquiali e comunicative peculiari (e a volte, peraltro, brillanti). In altri – emblematica a questo proposito la traduzione delle poesie di Tudor Arghezi –, l’occasione è politica e può provocare qualche malinteso. Vicino al PCI, nel 1966 Quasimodo viene infatti coinvolto nel tentativo di abbellire l’immagine del regime di Ceauşescu, il quale si era da poco deciso a rivalutare l’opera di Arghezi dopo averlo perseguitato per decenni. Il nostro procede, però, all’esercizio di traduzione avendo una conoscenza molto approssimativa della lingua rumena e basandosi quindi su una selezione e su delle versioni “brute” preparategli da alcuni docenti universitari vicini al regime. I risultati, in questo caso, non saranno sempre convincenti. Resta il fatto che nel loro insieme le traduzioni di Quasimodo sono comunque di un livello altissimo e rappresentano un’autentica ri-creazione, con un’attenzione all’aspetto comunicativo che di certo precorreva i tempi, ove l’aspetto filologico è utilizzato come strumento d’analisi ma non quale fine ultimo. In altre parole, piaccia o no, Quasimodo mirava a ricreare il testo per il lettore o spettatore italiano contemporaneo, svincolandosi ove necessario dal pedissequo rispetto del testo di partenza (dalla cosiddetta “fedeltà”) e mirando a un’equivalenza funzionale anziché formale o metrica. Impossibile, peraltro, separare nettamente la poesia di Quasimodo dalle sue traduzioni; si pensi solo a come quelle teatrali influenzeranno l’elemento comunicativo dell’ultima produzione poetica.
Se è vero che ogni generazione riscopre i propri nonni (e talora bisnonni) spirituali, bisogna forse chiedersi cosa ci resti oggi del Quasimodo poeta. Di sicuro, almeno una quindicina di poesie non di necessità legate alla prima fase, ma anzi, direi, da scegliere trasversalmente lungo tutto l’arco della sua attività. Poi ce ne sono anche alcune, fra cui l’acclamata Alle fronde dei salici, la cui retorica può risultare francamente fastidiosa, ma delle quali va comunque riconosciuta la percussiva riuscita e la maestria formale. Volendo essere equanimi, insomma, Quasimodo non sarà stato forse un poeta di primissima qualità, ma neanche un mero epigono o illustratore. Rimuoviamolo dunque dal canone, ma ricominciamo a leggerlo per quel che ancora può darci. Ne vale la pena.