Elisa Torsiello
Fenomenologia di un successo

“Casa di carta” è asso pigliatutto

Nella serie televisiva spagnola di Álex Pina, “La casa di carta”, nulla è lasciato al caso: si toccano le corde scoperte della disillusione politica ed economica, si costruiscono nuove realtà economiche, si chiamano in causa modelli cinematografici di ieri e di oggi

«Immaginate una partita di calcio del mondiale. Gioca il Brasile contro il Camerun. Chi vorreste che vincesse? Camerun. Se notate: istintivamente l’essere umano prende sempre le parti dei più deboli, dei perdenti. Quindi se noi mostreremo al mondo le nostre debolezze, le nostre ferite, susciteremo una grande commozione». Una semplice metafora calcistica. Tanto è bastato al personaggio del Professore per spiegare indirettamente un successo così inaspettato come quello che ha colpito a livello mondiale la serie televisiva spagnola La casa di carta (disponibile su Netflix). Le fila dell’intreccio seguono un percorso tanto semplice quanto ben costruito: otto malviventi guidati dal Professore; milioni di euro da produrre; una Zecca di Stato da occupare; la più grande rapina della storia da realizzare. La commozione che questi rapinatori vestiti di rosso e con il volto coperto dalla maschera di Dalí vogliono suscitare è direttamente proporzionale al tasso di immedesimazione che lega lo spettatore a ogni singolo personaggio. Molto più dei critici, molto di un’efficiente campagna pubblicitaria, ad aver decretato il successo de La casa di carta è stato il passaparola. Lo spettatore riprende in mano il proprio dominio, si sente colpito e compreso da ciò che gli viene proposto sullo schermo e decide di condividere questa felice scoperta con amici e conoscenti. E così faranno questi ultimi in un loop infinito che ha portato in pochi mesi questi personaggi dai nomi di città sulla bocca di tutti.

«Niente andrà male, Andrés. Noi siamo la resistenza, no?» chiede il Professore a Berlino, e quella della Casa di carta è a tutti gli effetti una resistenza che funziona, che fa sognare un paese al limite della recessione (la Spagna), prefigurando un possibile e – al momento solo utopistico – futuro migliore. Nel 2008 il popolo spagnolo è passato dal vivere il sogno di una crescita economica miracolosa, all’incubo della crisi finanziaria. Una situazione di disillusione, questa, che non ha fatto altro che esacerbare un già diffuso malessere, esploso poi sotto forma di insurrezioni e rivolte. Gli spagnoli (ma lo stesso discorso si può estendere anche a noi italiani e – con Trump al governo – agli americani), non si sentono ascoltati, amati, compresi. Ed è a questa insofferenza verso le proprie rappresentanze che deve il proprio successo la serie di Álex Pina. Il dito costantemente puntato in passato contro il governo di Zapatero, e il voto di sfiducia a quello uscente di Mariano Rajoy a seguito del suo coinvolgimento in una serie di finanziamenti illeciti (con tanto di storico ritorno al potere del partito socialista), rimarcano un equilibrio precario tra popolo e istituzioni. Sono dieci anni che la Spagna aspetta che qualcuno la degni di un ascolto, di uno sguardo. Se questo qualcuno, questo fantomatico eroe di una possibile resistenza, non si farà avanti dall’aula di un Parlamento, tanto vale ricercarlo su uno schermo televisivo, in un universo, cioè, dove realtà e finzione si mescolano e la politica fittizia non è meno veritiera di quella reale.

All’interno della Casa di carta non vi è dunque un singolo aspetto che non giochi il ruolo di filo attrattivo verso una ragnatela analogica da cui è difficile uscire indenni. Al resto ci pensa una serialità forgiata su un citazionismo di modelli cinematografici che funge da ponte transmediale tra la serie TV e la cultura pop di riferimento. Si raggiunge pertanto una cooptazione populista sul piano della produzione tale da consolidare il senso di engagement e fidelizzazione seriale da parte del pubblico. Il confine tra il mondo verosimile dello schermo e quello reale dello spettatore è reso ancora più labile. Al di là di una frantumazione rapsodica del tempo sostenuta dall’uso di un voice-over cronometrico che molto deve alla kubrickiana Rapina a mano armata (1956), interessante risulta l’uso delle maschere. Da Baby Driver (Edgar Wright, 2017), a The Town (Ben Affleck, 2010), fino a Point Break: punto di rottura (Kathryn Bigelow, 1991) sono innumerevoli i film che hanno sfruttato l’uso di questo escamotage, ma l’idea che dietro tale sotterfugio si nasconda un atto di depistaggio tale da confondere vittime e carnefici, lega La casa di carta a uno degli heist-movie più apprezzati negli ultimi anni: Inside Man di Spike Lee. Il dialogo intertestuale tra le due opere è evidente. Ancor prima del Professore, Dalton Russell (Clive Owen), insieme ai suoi complici, fa sua la filiale del Manatthan Trust, obbligando gli ostaggi a indossare delle tute identiche alle proprie. Il protagonista non solo realizzerà la rapina perfetta, ma si eleverà a vendicatore di una nazione ancora profondamente ferita dalla tragedia dell’11 settembre, e in ginocchio per la furia della crisi finanziaria dei subprime, la stessa che, da lì a poco, darà il via alla recessione nel mondo occidentale. Così come nel film di Lee, l’attacco alla Zecca di Stato nella serie spagnola si trasmuta in un attacco al cuore economico del paese. Un attacco che va ben al di là dell’utopistico ideale di “rubare ai ricchi per dare ai poveri”. I banditi del Professore non sono dei Robin Hood contemporanei perché non rubano soldi; loro li producono. Sfidano lo stato nel suo stesso territorio e con le sue stesse armi. Danno atto a una vendetta in nome di chi, sommerso dai debiti, si lascia inesorabilmente affogare nella povertà, mentre lo Stato è troppo impegnato a lanciare un salvagente fiduciario alle banche, traendole costantemente in salvo. Come sottolineato dal Professore, è giunto il momento che siano gli inascoltati, gli ignorati, i reietti a rinascere e a riprendersi il potere.

«Nel 2011 la Banca centrale europea ha creato dal nulla 171 mila milioni di euro; dal nulla, proprio come stiamo facendo noi. Sai dove sono finiti tutti quei soldi? Alle banche! Qualcuno ha detto che la Bce è una ladra? Iniezione di liquidità l’hanno chiamata. […] Io sto facendo un’iniezione di liquidità nell’economia reale di questo gruppo di disgraziati». È un passaggio narrativo importante questo, non solo perché esemplifica il piano d’azione della banda, ma perché dà vita alla stipulazione solidale tra lo spettatore e i protagonisti. Il desiderio catartico che il protagonista soccomba, come avviene per il Walter White di Breaking Bad, viene superato. Tokyo, Mosca, Berlino, Nairobi, Denver, diventano eroi romantici, paladini di sogni infranti e vite spezzate da scelte sbagliate. Con loro la televisione si fa specchio riverberante un paese sull’orlo della rivoluzione e del cambiamento. Una rivoluzione dalle tonalità rosso fuoco, proprio come rosse sono le loro tute, e che ha ritrovato in quel Bella Ciao intonato a squarciagola, l’inno della propria resistenza. Una resistenza che «non potrà fallire».

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