Raoul Precht
Periscopio (globale)

Storia di Paula

Ritratto di Paula Modersohn-Becker, la pittrice amica di Rilke, educata da Cézanne e Rodin, la cui parabola artistica fu condizionata da una vita troppo breve e drammatica

Di tanto in tanto qualcuno si sovviene di Paula. È attualmente la volta di Villa Vauban, a Lussemburgo, in collaborazione con il Landesmuseum di Hannover, mentre due anni fa era stato il Musée d’art moderne de la Ville de Paris a ricordare, con una più ampia retrospettiva, l’opera di Paula Modersohn-Becker, pittrice per molti versi unica e ineguagliata. Il culto della pittrice è cominciato del resto proprio nella sua città d’elezione, Parigi, nel 1978, in occasione di una grande mostra al Centre Pompidou che sancì la riscoperta, in Francia, dell’arte tedesca a cavallo fra XIX° e XX° secolo, in parte la stessa che sarebbe figurata nella famosa mostra sull’arte degenerata inscenata dai nazisti. E non a caso è una scrittrice francese, Marie Darrieussecq, ad averle dedicato nel 2016 una vivace biografia.

Amica di Rilke e soprattutto della moglie, la scultrice Clara Westhoff, nella sua breve esistenza Paula Modersohn-Becker attraverserà varie fasi pittoriche, in ciascuna lasciando il segno di una personalità innovativa e audace. Ai suoi esordi farà parte per alcuni anni della comunità artistica di Worpswede, una specie di Barbizon della Germania settentrionale, dove liberi dai lacci delle accademie gli artisti lavorano en plein air e dove fra gli altri pittori ha modo di conoscere, apprezzare e infine sposare Otto Modersohn, al quale sarà legata, sia pure in modo altalenante, per tutta la vita. È proprio Modersohn, insieme a Fritz Overbeck, Hans am Ende, Fritz Mackensen e la stessa Westhoff, a nutrirla artisticamente negli anni dell’apprendistato, quando dai paesaggi della campagna intorno a Brema la pittrice passa a dipingere con sempre maggior precisione le nature morte e gli straordinari ritratti che le daranno una notorietà postuma e un posto nella storia dell’arte del Novecento. Già in questi primi lavori è evidente il desiderio di non abbellire nulla e di andare al cuore delle cose, e soprattutto delle persone.

Senza i ripetuti soggiorni nella Parigi d’inizio secolo, senza gli incontri con Cézanne, Rodin e molto probabilmente Picasso, che da un suo dipinto sembra sia stato ispirato per risolvere taluni problemi formali relativi al famoso ritratto di Gertrude Stein, l’arte pittorica di Paula Modersohn-Becker non si sarebbe tuttavia mai affrancata dal provincialismo e dalle modalità illustrative e naturalistiche dei suoi compagni di cordata iniziali. Ben presto la raffigurazione un po’ ingenua di un mondo contadino puro e inalterato, di cui si postula l’autenticità a priori, le andrà stretta. Nei dieci anni d’attività che la vita le offre Paula realizza centinaia di quadri, la cui originalità non va cercata tanto nei temi proposti, che si ritrovano anche in numerosi altri artisti (autoritratti, madri con bambini piccoli, contadini, chiese ecc.), ma nel modo in cui la pittrice decide di tratteggiarli ed eseguirli, con un approccio innovatore: si veda la luminosità nelle nature morte, come lo straordinario Stillleben mit Kürbis (Natura morta con melone), del 1905, o il recepimento delle istanze del primitivismo nei ritratti (a mo’ d’esempio, e tra i tanti, l’autoritratto con collana d’ambra, del 1906). Il 1905 e il 1906 sono per molti versi gli anni della svolta: presso un collezionista parigino, Gustave Fayet, scopre Gauguin, proprio come poco prima le era successo con Cézanne – da lei considerato uno dei pochi giganti della pittura – in un’altra galleria d’arte, quella di Ambroise Vollard. Approfondisce i suoi studi sui ritratti egiziani detti del Fayyum, che aveva scoperto due anni prima al Louvre. Si separa dal marito e dà inizio a una fase di assoluta e instancabile creatività, in cui l’influenza della tradizione (la Vergine con il bambino) si associa a una visione netta e quasi fotografica dell’oggetto ritratto. La luce, i colori, le sagome tratteggiate con rapidità e apparente approssimazione, tutto congiura non più a creare effetti di realismo, ma al contrario a privare l’oggetto di qualunque compiacimento, di tutte le patine e sovrapposizioni cui il nostro sguardo indulge, per renderne un’immagine sintetica che sia quanto più vicina possibile alla sua essenza. Il superfluo decade e si desquama, come una crosta inutile, lasciando allo spettatore la visione, quasi sempre frontale, di una personalità intima e prorompente. È anche la prima artista, Paula, se non contiamo l’episodico e per ora solo probabile utilizzo del proprio corpo da parte di Artemisia Gentileschi in una delle tre versioni di Susanna e i vecchioni, ad aver eseguito degli autoritratti nudi, uno dei quali, datato 5 maggio 1906, quando ancora non era incinta, la presenta curiosamente gravida di alcuni mesi, a torso nudo e con appena un drappo a coprire la parte bassa del corpo. Presentimento o piuttosto simbolo? Il bambino, si è detto, potrebbe rappresentare l’arte, di cui era davvero pregna. Non risulta poi troppo sorprendente che Paula Modersohn-Becker nascondesse le sue opere alla vista dei colleghi artisti, a cominciare da suo marito, e che grande sia stata la sorpresa di tutti, alla sua morte, nel ritrovare centinaia di opere – settecentoquaranta solo i dipinti, di cui appena tre venduti in vita – di una fattura rivoluzionaria, per l’accettazione delle quali ci sarebbero voluti poi decenni.

Sebbene presentisse che non sarebbe vissuta a lungo – così aveva scritto nel suo diario nel 1900, confrontando la sua vita con una breve e intensa celebrazione –, di sicuro non immaginava che una delle più grandi gioie della sua vita, la nascita della figlia Mathilde, coincidesse con il naufragio definitivo. La morte la coglierà infatti il 21 novembre 1907, a meno di venti giorni dal parto, quando, alzatasi dal letto dove i medici le avevano ingiunto di restare fino a quel momento, un embolo la sorprenderà e le permetterà unicamente di pronunciare, quali ultime parole, l’espressione “Wie schade” (“che peccato”) che simboleggia e riassume tutta la sua vita. E la coglie, questa morte assurda, proprio quando, grazie anche alla nascita di Mathilde, con Otto era riuscita a raggiungere un compromesso che le avrebbe probabilmente consentito di produrre molte altre opere e di crescere ulteriormente come artista.

L’amicizia con Rilke, che incontra lei e Clara nel 1900 subito dopo essere stato lasciato a San Pietroburgo e rimandato a casa dall’amante storica, Lou-Andreas Salomé, e che di entrambe in qualche modo s’invaghisce, continua, carsica, per tutti gli anni della formazione parigina. Il poeta non vede troppo di buon occhio la decisione di Paula di maritarsi con Otto e forse sposa Clara come una specie di ripiego, tanto che questo matrimonio, pur dando loro una figlia, Ruth, durerà non più di un anno. Non può dirsi comunque che Rilke, al quale Paula dedicherà uno splendido ritratto, abbia compreso subito la novità e l’originalità del suo stile; in un primo tempo, anzi, scrivendo una monografia dedicata ai pittori di Worpswede, ignora le donne artiste, salvo poi restare affascinato dalle tele di Paula dopo la svolta parigina e dedicarle, a un anno esatto dalla morte, il famoso Requiem für eine Freundin (Requiem per un’amica). In questo poemetto, alcuni versi (qui nella versione di Dario Borso) rappresentano un vero e proprio saggio critico postumo sull’opera di Paula: “Ché la capivi tu, la pienezza dei frutti. / Li posavi su piatti innanzi a te / e controbilanciavi con colori il loro peso. / E come frutti vedevi anche le donne / e così vedevi i bimbi, dall’interno / spinti nelle forme del loro esistere. / E vedevi te stessa infine come un frutto…” E fra le righe traspare un pizzico di rimorso per non averla sostenuta abbastanza: “Un rimprovero che muovessi da fantasma, / muovessi rancorosa a me quando di notte mi ritiro / nei miei polmoni, nelle mie budella, / nell’ultima più angusta cavità del cuore -”.

Determinata e perfino insolente, ma anche timida, decisa ad affermarsi professionalmente (a diventare qualcuno, come scrive alla madre) come pure alla ricerca di una vita familiare, terrorizzata e insieme attratta dalla maternità, indipendente e al contempo bisognosa del sostegno della famiglia prima, e del danaro del marito poi, per potersi mantenere a Parigi, Paula è una donna di grandi, irrisolte contraddizioni, “da ogni altro (…) troppo lontana”, come scrive Rilke. Quando sposa Otto, accetta implicitamente di occuparsi della figlia di primo letto, Elsbeth, che all’epoca ha appena due anni; ma appena può, scappa a Parigi e abbandona marito e figlia adottiva, alla ricerca di una libertà che in quel momento Otto non può darle. Sola a Parigi, ha una breve e sfortunata relazione con il sociologo Werner Sombart e forse storie con altri uomini, ma è da Otto che finirà per tornare, restandone incinta. Che muoia proprio quando le cose sembrano finalmente sistemarsi non desta, a ben vedere, troppo stupore.

Oggi, per vedere e analizzare davvero l’opera di Paula nel suo insieme occorre visitare il museo a lei dedicato al centro di Brema, nella Böttcherstrasse, in un edificio fatto ristrutturare nel 1927, ad opera dell’architetto Bernhard Hoetger, dall’inventore del caffè senza caffeina, Ludwig Roselius. Gestita dalla Fondazione Paula Modersohn-Becker, la collezione rappresenta un’occasione unica per ripercorrere la breve parabola di un’artista dotata di un’enorme capacità di assorbimento e rielaborazione e purtroppo bloccata dal destino a metà del suo promettente volo.

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