Al Museo di Sant'Egidio di Roma
Sessantotto in salotto
Dreamers, la mostra dedicata al Sessantotto cinquant'anni dopo, è un catalogo (senza personalità) di tutto e il contrario di tutto. Come se quel fulmine non avesse bruciato la storia
L’idea attorno alla quale è stata costruita la mostra in scena fino a settembre al Museo di Trastevere in piazza Sant’Egidio, a Roma, non sembrava sbagliata. Almeno sulla carta. Provare a raccontare il Sessantotto a una generazione di mezzo secolo dopo vaccinata dal virus dei miti altrui, scegliendo a unità di misura il collante del sogno. Dreamers: un titolo a parola d’ordine, nobilitato nelle intenzioni dalla citazione di un film griffato da un maestro consacrato come Bernardo Bertolucci. E un sottotitolo in lettere minuscole, «come eravamo, come saremo», che, sempre partendo da una citazione da cinefili, cercava di proiettarne gli echi al futuro. Tornare a sognare insieme. Perché no?
Peccato che a dar corpo a questa speranza sia solo un esile indizio: un paio di foto, annegate lungo il percorso in un mare di altre immagini, che registrano le manifestazioni dei giovani millennials made in Usa scesi in piazza per denunciare le stragi provocate dall’incontrastato mercato delle armi a portata di tutti, che il nuovo presidente Donald Trump continua a difendere a spada tratta. Ora come allora, il potere sempre nelle mani della persona e degli interessi sbagliati. Ma le analogie finiscono lì. Gli eccidi nelle scuole, i pazzi che sparano nei corridoi delle Università, provocano orrore e paura, nulla però che possa spingere alla rivolta un’intera generazione, diffondere il contagio Oltreoceano. Diventare un detonatore planetario. Come è stata la guerra in Vietnam: un rivendicare il diritto alla vita e alla libertà, rafforzato e moltiplicato in modo pervasivo da altri bisogni, altre urgenze d’emancipazione, altre narrazioni ideologiche. Ma a giudicare dalle immagini che la mostra le dedica, del resto, la centralità di quest’evento, è quasi del tutto rimossa.
Qualche panoramica dei grandi raduni, un’inquadratura di una pattuglia americana che annaspa nel fango del Mekong, l’orrida e celebre icona del militare di Saigon che trucida con un colpo alla tempia in piena strada un sospetto vietcong, e poi una carrellata più lunga sulla primavera di Praga, l’invasione dei russi, rispettando le simmetrie della guerra fredda che allora governavano la ripartizione tra buoni e cattivi: tutto qui. E non che fosse difficile trovare materiali e testimonianze più incisive. La sensazione è che parlare con toni forti di guerra avrebbe innescato riflessioni troppo scomode e complesse, in grado di guastare il clima di festa, di rievocazione patinata, cui questo tuffo retrò sembra puntare. Equazioni squilibrate con le guerre e le carneficine e gli orrori di oggi, dalla Siria allo Yemen, dalla Libia all’Afghanistan. E con i nuovi problemi, le nuove paure che investono la cattiva coscienza dell’Occidente. Meglio parlar d’altro.
E in fondo neanche questo sarebbe sbagliato. Giusta, sulla carta, poteva apparire anche l’idea di ripercorrere la Storia, mescolando i registri dall’alto al basso, dalla politica alle canzonette, dalla riflessione sociologica allo sport, dalla cronaca al glamour del pettegolezzo, dal serio al faceto. Peccato però che questo dosaggio sia calibrato con un bilancino e un gusto anodino da marketing, in modo da trasformare la mostra in un’occasione perduta, una delle tante inutili e irritanti passerelle inanellate dalle celebrazioni del cinquantenario. Il Sessantotto resuscitato come nostalgia vintage, un prodotto di nicchia accanto ad altre merci, altri prodotti da consumare. E gli spettatori, soprattutto quelli più su con gli anni, ingaggiati come testimonial e cavie di un esperimento di seduzione.
In un angolo un juke box, che strizza l’occhio agli adolescenti perduti di allora. Al centro del cortile, al vernissage, un’orchestrina che scandisce la colonna sonora del Laureato, film cult dell’epoca. Alla faccia della spinta ribelle e anticonsumistica che è stata impronta caratteristica di quella stagione. Tra i tanti sogni ai quali il cinema d’allora ha dato cassa di risonanza, me ne torna in mente uno. Il finale di Zabriskie Point di Antonioni. Quella ragazza che scappa dalla villa del ricco industriale cui stava per cedere. Poi si volta e la vede esplodere. Una nuvola di macerie che sale su verso a impolverare l’azzurro e poi precipita giù, un girotondo al rallentatore di oggetti e suppellettili d’epoca che ci galleggiano davanti agli occhi, ormai privi di senso. Sognare l’impossibile, come sembra invitarci a rifare lo slogan esibito sul cartello all’ingresso era anche questo. O magari il colpo d’ala di un’altra scena madre dello stesso film, un altro sogno ad occhi aperti: quella danza di coppie nude che si rotolano allacciate nella polvere nell’inferno di un vallone desertico sotto il livello del mare. Il Sessantotto come scalata al cielo di corpi desideranti.
Due chiavi di rilettura parziali ma più illuminanti di quella matassa di documenti e di spunti che i curatori di Dreamers si sono limitati ad allineare uno accanto all’altro, senza alcuna gerarchia, alcun filo d’Arianna privilegiato. Come se la storia non fosse che un succedersi orizzontale di eventi intercambiabili. Le immagini di Bob Kennedy e Martin Luther King accanto a quelle di un Celentano ragazzo che passeggia per le strade di Roma, le prime pagine dei giornali d’allora che gridano morti, orrori, congiure, colpi di stato, imprese epiche con la stessa enfasi con cui ci informano che il Milan, quell’anno, ha vinto lo scudetto. Le vittime del terremoto in Belice e le teste fasciate di studenti e poliziotti che se le son date di brutto a valla Giulia. L’arresto di Dubcek a Praga accanto alle vittorie pugilistiche di Benvenuti. Gli sgomberi della polizia alla Sapienza esibiti, senza neppure ricordare in didascalia se quegli studenti in fuga o sulle barricate erano di sinistra o di destra. Allora non era un dettaglio insignificante. Anche se oggi non si usa più. Ed è arrendersi alla sconfitta. Non ragionarci su.
Tra tante suggestioni alla rinfusa restano almeno a me in mente soprattutto un paio di tabelle di raffronti statistici. Che se non altro fotografano in modo lapidario le differenze tra ieri e oggi. Le persone con meno di 35 anni, cinquant’anni fa, erano 28 milioni, oggi appena venti. I nuovi nati: da circa un milione a meno di mezzo. I nati da genitori non sposati: dal 2 al 28 per cento. Gli stranieri residenti: da 62 mila a 5 milioni. Le auto circolanti: da 8 a 37 milioni. Il tasso di disoccupazione: da 5 all’11 per cento. Il Pil per abitante: da 12 a 26 milioni. Il debito pubblico: dal 34 al 132 per cento.