La rassegna al Teatro Libero di Palermo
Nuovissimo teatro
Il Festival palermitano PresenteFuturo rappresenta un'occasione da non perdere per cogliere gli indirizzi creativi del nuovissimo teatro internazionale. Dalla danza alla performance, dalla prosa al nuovo circo...
Esiste un mondo creativo legato allo spettacolo da vivo sommerso, con un suo circuito di relazioni, con un suo “mercato” internazionale, soprattutto con un suo pubblico e una sua ragion d’essere precisa. È difficile imbattersi in questo mondo rimanendo di qua, ossia nell’universo – via via più asfittico – dello spettacolo ufficiale (non necessariamente commerciale, beninteso): per incontrarlo bisogna immergersi in altre realtà. A Palermo, come per un rave buono, da tempo ogni anno si consuma questo rito di inclusione nel nuovo teatro: prima era il festival Incontroazione, adesso si chiama PresenteFuturo, la rassegna di fine maggio organizzata da Luca Mazzone al Teatro Libero.
Cominciamo dalla sala, per chi non la conosce: uno spazio alla tedesca (gradinata molto inclinata con il palcoscenico frontale) dentro un’architettura antica fatta di lesene e mattoni e pietre (siamo nella Kalsa, il quartiere arabo-normanno), poco meno di centocinquanta posti: nei tre giorni di PresenteFuturo (da giovedì a sabato scorsi) sono stati sempre pieni, e questa è già una buona notizia. La formula del festival – gemellato con iniziative analoghe a Birmingham in Gran Bretagna (il Be Festival), a Tarragona in Catalogna (il FITT), ad Ascona in Svizzera (il Teatro San Materno) e da quest’anno a Anghiari (Anghiari Dance Hub) – prevede quattro spettacoli di circa venti minuti ogni sera. Perché solo venti minuti? Le ragioni sono tante. Intanto, in questo modo l’impegno produttivo e distributivo si riduce, permettendo anche a compagnie di artisti giovani o giovanissimi di creare performance ed esibirsi in giro per il mondo. Poi perché il format breve è più consono alla sensibilità (e alla capacità di concentrazione) del pubblico giovanile cui queste iniziative si rivolgono. Infine, la rassegna di assaggi brevi dà l’occasione agli addetti ai lavori di conoscere parecchi nuovi artisti in un tempo tutto sommato limitato. Salvo che poi non è detto che i corti di venti minuti abbiano la possibilità intrinseca di evolversi in uno spettacolo vero e proprio: spesso la loro dimensione è insita nel tempo breve. Ma è un fatto che questo format (diversi spettacoli di quindici/venti minuti in una sola sera) ha ormai un suo mercato italiano e internazionale molto significativo. E forse rappresenta un passaggio obbligato per il rinnovamento del teatro.
Già, il teatro. Ma di che cosa parliamo, esattamente? Di un’espressione artistica che mescola i linguaggi in continuazione. Se il teatro – nel suo senso millenario – è di per sé il prodotto della fusione di linguaggi diversi (la poesia, la musica, la gestione dello spazio, il movimento…), la sua nuova frontiera intanto allarga il novero almeno anche alla danza contemporanea, all’arte concettuale e al circo, ma poi, e soprattutto, impone a ciascun linguaggio un vincolo drammaturgico. Nuovo teatro significa raccontare storie (e comunicare emozioni) anche usando linguaggi che in passato si limitavano a esprimere se stessi e le proprie metafore. Sta in questo – la drammaturgia – la differenza, per esempio, tra danza classica e teatrodanza, tra circo e nuovo circo, tra arte concettuale e performance. Ecco, il festival PresenteFuturo è dedicato a tutto ciò: una ricognizione internazionale di esperimenti (giovanili) in questo senso. È la fucina, per intenderci, di ciò che per esempio in Italia si vedeva a Teatro a Corte (il festival nelle residenze sabaude inopinatamente chiuso dalla miopia politica piemontese), o che in parte confluisce – a Roma – nella rassegna di Short Theatre. Un mondo vivo, creativo, indispensabile, anche quando è irrisolto e confuso.
Perché a PresenteFuturo nei giorni scorsi si sono visti dodici spettacoli forse imperfetti ma tutti testimonianza di un fermento creativo che sicuramente andrà nel tempo a corroborare il teatro e lo spettacolo ufficiali. Prendiamo i due italiani Quinzio Quiescenti e Daniele Nash (nella foto accanto al titolo) che hanno presentato Esco, così mi perdo: sono due clown, figli legittimi del Beckett di Atto senza parole, che della lezione del loro padre nobile – Beckett, appunto – colgono soprattutto la dimensione farsesca. Le loro clownerie (due uomini che scoprono con sorpresa un nuovo mondo all’interno del quale fissare nuove, improbabili regole) scavano fino in fondo l’impossibilità della tragedia novecentesca trovando nella farsa – nel nuovo circo, appunto – la chiave di volta per una catarsi comica. Certo, la loro strada è appena cominciata: è ancora stentata, sì, ma già ben segnata. Allo stesso modo, Juan Duarte Mateos (nella foto sopra), clown uruguaiano di formazione francese, pennella un frammento di vita quotidiana reso assurdo (ancora in senso beckettiano) dal fatto che il protagonista/performer fa qualunque cosa con una palla in equilibrio sulla testa. In attesa di completare l’azione con una drammaturgia più articolata, qui siamo di fronte a una metafora pura, peraltro resa perfettamente grazie al talento dell’interprete.
Nutrita, anche la componente orientava verso la nuova danza, a PresenteFuturo. Tra le tante proposte, ci ha colpito The shape of water della coreografa Sara Angius (di origine sarda e di formazione tedesca): un gioco a tre (le altre interpreti sono Loretta d’Antuono e Laura Witzleben) che in alcuni momenti riesce perfettamente nell’intento di trasformare i corpi in acqua. Ogni vuoto si riempie, in questi attimi, dando l’idea di come l’essere umano sia effettivamente un frammento del tutto… Ma il lavoro sul corpo è anche quello compiuto da Francesca Lombardo, danzatrice e performer, che in Borderlight (nella foto sopra) riesce a dare un’anima (emotiva) a quella che fu l’arte concettuale. Un gioco d’ombre proietta le sinuosità di un corpo come forme d’arte africana, mentre lo stesso corpo finisce per subire il predominio della pittura in una sovrapposizione continua di ombre e proiezioni: una performance bella ed emozionante, dove l’apporto tecnologico è discreto e funzionale.
Infine, il versante più direttamente teatrale ha visto in scena due frammenti affatto differenti. Da un lato Antonio De Nitto ha messo in scena Rukelie di Peppe Millanta, la storia esemplare di Johann Trollmann, detto Rukelie, appunto: pugile sinti cui la Germania nazista tolse il titolo nazionale che egli aveva legittimamente vinto per poi spedirlo in Lager dove fu ucciso da un Kapò che egli aveva battuto in un incredibile incontro di boxe nel campo di concentramento (Succedeoggi ha già raccontato la sua storia, clicca qui per leggere l’articolo). Dall’altro, Andrea Jiménez e Noemi Rodriguez hanno presentato Generation Why, una riflessione buffa, se non parodistica sui millennial, ossia la generazione senza sogni, senza desideri, senza certezze e, per questo, senza futuro nata tra il 1985 e il 2010. In fondo, una contraddizione stridente con la creatività – invece – espressa dai millennials che per tre giorni si sono esibiti, con idee chiare e spesso convincenti, qui a Palermo.