La prima puntata di un romanzo inedito
Pat e il pirata
«Chi gestisce questo teatro è Pat, un vecchio segaligno, ottantaduenne, completamente calvo e con gli occhi di un inquietante azzurro slavato, quasi bianco, totalmente privi di ciglia»
L’uccello del paradiso è sia un volatile che una costellazione. L’una cosa e l’altra hanno a che fare con l’emisfero australe e con un Paese che ha scelto di rappresentarle entrambe sulla sua bandiera. Bandiera giovanissima, una delle ultime a sventolare (1975) fresca d’indipendenza. Ma, parlando di simboli, mentre l’uccello è l’esemplare corretto, perché quasi tutti i volatili di quella specie vivono nell’isola (la più grande al mondo dopo la Groenlandia) la costellazione invece è quella sbagliata. Avrebbe certo dovuto essere la costellazione dell’uccello del paradiso, per l’ovvia coincidenza onomastica e anche per la felice collocazione astronomica, molto vicina al polo sud celeste. Solo che chi ha accoppiato i simboli del Paese ha pensato bene di sostituirla, banalmente, con la più nota croce del sud. La bandiera è dunque il frutto di questo errore: il triangolo superiore del taglio diagonale raffigura l’uccello giusto, giallo-oro in campo rosso; quello inferiore la costellazione sbagliata, bianco-argentea in campo nero.
Malcom Kelly era australiano di nascita, ma di famiglia e retaggio irlandesi. Forse per questo era tanto legato a Pat, nato a Dublino ed emigrato in Oceania molto più tardi, già adulto. Due tipi così diversi. Questa comune radice irlandese è la sola somiglianza che riesca a stabilire tra loro. Vecchio, tenace sangue irlandese. Per il resto, due avventurieri, ma dissimili in tutto. Pensare a quei due mi fa venire in mente la trita dicotomia del pirata e del gentiluomo. Beh, in Pat, almeno in superficie, era decisamente il gentiluomo a prevalere, anche se nessuno più di lui s’è arricchito, qui in Papua; e benché avesse l’indole del predatore, sapeva camuffarla con le maschere più oneste e virtuose, e farsi benvolere da tutti. In Malcom, invece, nessuna traccia di gentiluomo. È quel che appare: un bandito di mezza tacca. Zero scrupoli, zero visione, nessuna capacità mimetica. Non c’è da stupirsi che sia finito com’è finito, mentre quell’altro è milionario.
***
L’hotel Grand Papua di Goroka, Eastern Highlands Province, altopiano centrale della Papua Nuova Guinea, è il luogo di ritrovo dei bianchi della provincia. È una grande tettoia di legno e paglia sotto la quale, dinanzi a un pesante bancone in pietra, sono disseminati una trentina di tavoli. Attorno, immersi nella fitta vegetazione, s’intravedono i bungalow con le camere. Piccole costruzioni a un solo piano, in legno grigio, con le verande protette da zanzariere affacciate sul torrente che traversa da nord a sud la foresta pluviale. Casupole indipendenti, circondate di un soffice tappeto vegetale e connesse tra loro da cunicoli quasi scavati nella folta vegetazione, coperti da una fitta volta di rami e fogliame. Un dedalo di percorsi furtivi, clandestini, che connettono alloggi quasi sempre vuoti. Non sono occupati da turisti, l’utilizzo più frequente delle camere consiste nel fornire un tetto a ore alle brevi avventure extraconiugali dei maschi bianchi – e da qualche tempo anche aborigeni – che frequentano il resort.
Se i bungalow sono appartati e perlopiù deserti, il bar in compenso è rumoroso e affollato. E’ la vera attrazione locale, lavora a pieno ritmo, la sua animazione giustifica la fama di cui il Grand Papua gode nel resto del Paese. Uno dei luoghi di più intenso scambio sociale dell’isola, perché a frequentarlo ormai non sono solo i bianchi. Da quando, con i recenti sviluppi dell’oil&gaz, qualche vampata di ricchezza ha sfiorato il Paese, molte cose sono cambiate, un tumultuoso benessere – o quanto meno un’ansiosa aspirazione a raggiungerlo – non è più prerogativa dei soli bianchi. E molti aborigeni – i più intraprendenti, i più avidi – si sono messi in affari e hanno cominciato a frequentare il resort.
Sono le cinque pomeridiane e il sole è basso, ma fa ancora un caldo soffocante. La clientela si distribuisce sotto l’ombra dell’ampia tettoia, abbastanza equamente divisa tra tavoli di soli bianchi, tavoli di soli aborigeni e tavoli misti, che sono in genere i più vivaci. La prolungata happy hour del Grand Papua è l’occasione d’incontro. Qui – con la scusa di un po’ d’allegria, di liquori a buon mercato e di sesso facile e discreto – ci si mischia, s’entra in contatto; qui avviene la contaminazione culturale, sociale, economica tra le due comunità, quella aborigena in disordinata e famelica ascesa e quella coloniale bianca in ritirata. Si discute di tutto: vita quotidiana, pettegolezzi, apparentamenti, incontri sportivi, cerimonie laiche e religiose, tradizioni, ricorrenze, politica, affari. Soprattutto affari. S’intessono a questi tavoli legami d’interesse, si misurano rapporti di forza.
Le discussioni scorrono tra boccali di birra non abbastanza fredda e cibo di mediocre qualità – pesce o carne mal tagliati e rozzamente grigliati, intrugli di vegetali stracotti in salse troppo speziate, qualche innocua insalata di frutta tropicale e di quando in quando, raramente, crostacei crudi o cotti di sorprendente freschezza, di dimensioni oceaniche ma di dolcezza e fragranza mediterranee – serviti ai tavoli da ragazzette cinesi, indonesiane, filippine, vietnamite, in abiti succinti, molto più numerose del necessario e sempre disponibili a prestazioni extra nelle camere sfitte del resort.
Chi gestisce questo teatro è Pat, un vecchio segaligno, ottantaduenne, completamente calvo e con gli occhi di un inquietante azzurro slavato, quasi bianco, totalmente privi di ciglia, la pelle del viso flaccida e cascante, ma un fisico tutto sommato ancora integro, asciutto e nervoso, sorprendentemente scattante per un uomo della sua età.
“Non vi conviene prendere la strada di Simbu,” dice Pat. “In macchina ci vogliono più di sette ore, una pista orrenda. E malsicura.”
Francis, l’ingegnere aborigeno che lavora con Malcom, fa spallucce. “Perché malsicura? Non arriviamo fino a Mount Hagen, ci fermiamo prima, appena oltre Kundiawa; e abbiamo uno del posto con noi, a farci guida. Il governatore ci aspetta.”
Pat scuote la testa. “Fareste meglio a usare l’elicottero. Non lo dico per me, non m’interessa mica vendervi il volo…”
Malcom lo interrompe con un gesto, come dire: “non è neanche il caso di dirle, queste cose…” fa un gesto con la mano e riprende: “c’è troppa roba, Pat. Un camion intero, più il pick-up di Francis e il mio, stracarichi. L’elicottero non basta, bisogna andare via terra. Formiamo un piccolo convoglio.”
“Non mi piace,” scuote la testa Pat. “Un convoglio su quella pista… Andate in cerca di guai. Cosa portate?”
“Attrezzatura topografica, macchinario, ricambi…” risponde Francis. “Niente di prezioso. Rilassati, non c’è nulla di appetibile per quei selvaggi.”
“Qualunque cosa è appetibile per la gente di Mount Hagen. Voi stessi lo siete. Non vi fidate del governatore. È una canaglia.”
Francis è originario di qui, una delle poche famiglie aborigene abbienti di Port Moresby. Il padre è un commerciante di legname e un piccolo imprenditore, socio di Malcom in questa impresa. Francis ha studiato in Australia, a Brisbane e Melbourne, e ha lavorato alcuni anni a Perth per una grande azienda mineraria australiana. La Compagnia l’ha assunto quando il progetto della diga di Purari ha cominciato a diventare qualcosa di concreto.
È un ragazzone alto un metro e novanta abbondante, massiccio, carnagione scura, capelli crespi, collo tozzo. Un fisico da rugbista, sport che in passato ha praticato con successo nella squadra del college. Ora è sposato, ha due figli piccoli e lo sport l’ha messo da parte. Pensa alla carriera. E ai quattrini. Purari e la Compagnia sono una buona chance, per lui.
“È un vecchio amico…” sorride Malcom. “Non parlare così dei vecchi amici, Pat.”
“Io dico quello che penso,” ribatte scontroso Pat. “Quand’ero governatore io, qui a Goroka, e quel tanghero girava ancora nudo per le montagne attorno a Kundiawa, l’ho tirato fuori dai guai più di una volta. È sempre stato bravo a cacciarsi nei guai. E non è cambiato. Un cialtrone e un furfante. E adesso guarda. Ce lo ritroviamo governatore… Puh!”
Malcom sorride e alza la pinta di birra semivuota. “Ai furfanti!” dice. “I soli che fanno carriera, il tipo d’uomini di cui questo paese ha bisogno…”
“Ne hai fatta un bel po’ anche tu, Pat, non lamentarti,” ribatte Francis.
Pat si alza. “È diverso,” dice. “Molto diverso. Non è più lo stesso paese e voi fareste bene ad andarci piano. Non vale la pena di prendersi certi rischi. Ma adesso scusatemi, avevo un altro impegno…” S’allontana tra i tavoli e va a sedersi due ordini più in là, ai margini della piattaforma, dove tre uomini lo stanno aspettando.
Due bianchi e un aborigeno. Da un po’ non gli levano gli occhi di dosso. Sono stati tutto il tempo a bere in silenzio, in attesa. E adesso che Pat si siede tra loro, il tavolo si rianima all’improvviso. Si mettono a discutere con foga di una certa cessione di terreni, poco fuori Lae, sulla costa. I due bianchi – un australiano alto e secco, allampanato, con un naso enorme che sostiene un paio di occhiali dalle lenti spesse e dalla montatura massiccia e un inglese mingherlino, rossiccio di carnagione e di pelo, con gli occhi a palla e due baffetti alla James Joyce – intendono rilevare la proprietà per farne una specie di resort. Da Pat vogliono intermediazione e consigli. L’aborigeno, anziano, in abiti trasandati, dai lineamenti massicci e sgraziati come quasi tutti quaggiù, fissa torvo i due bianchi, ma il volto gli si distende in un sorriso fiducioso quando incrocia lo sguardo di Pat.
Il colloquio dura non più di una decina di minuti. Poi Pat passa a un altro tavolo, e a un altro ancora. Tante piccole faccende da sbrigare. Chi vuole da lui informazioni, consigli, chi gli chiede di fare da garante per qualcosa. Un aborigeno lo invita al matrimonio della figlia. È il capo di un villaggio ai confini della provincia e s’è fatto cinque ore di viaggio fino a Goroka solo per invitare Pat alle nozze, come ospite d’onore. Perché laggiù, nel suo villaggio, Pat è un mito, quasi una specie di semidio. Pat però gli dice brusco che non vuole saperne, non intende essere immischiato in questioni di matrimoni. Si occupa d’affari di ogni genere, compravendite, concessioni, associazioni, ingaggi… ma matrimoni no. L’uomo del villaggio lo sa, tutti in PNG lo sanno. L’avversione di Pat per i matrimoni è nota. L’uomo del villaggio insiste, spera che, per i rapporti avuti con lui in passato e per la venerazione che il villaggio gli porta, Pat per una volta faccia un’eccezione. Ma sa anche che Pat ha una parola sola, e sa dirla a muso duro se occorre. Il vecchio s’alza costernato e se ne va.
È dopo cena, quando Malcom ha già acceso uno dei suoi enormi sigari, che il nativo fa la sua comparsa all’ingresso del bar. E’ un uomo maturo, quasi anziano, di corporatura molto robusta, indossa un paio di calzoni stazzonati, un camicione informe, a sacco, sandali ai piedi nudi. Ma quello che fa davvero impressione è la testa: un cranio enorme, sproporzionato al resto del corpo, pur massiccio, completamente calvo, zigomi alti, un volto dalle ossa forti, scolpito come una maschera e rivestito di una pelle bruna su cui compaiono piccoli tatuaggi neri, che s’estendono al collo e alle braccia. Si guarda intorno, individua il tavolo e s’avvia deciso in quella direzione.
Pat, da lontano, lo vede avventarsi su Malcom, puntandolo col dito. Abbassa l’enorme cranio in modo da incombere su di lui, gli è quasi addosso. Malcom ostenta indifferenza. Finge di fissare la punta del suo sigaro, invece del viso orrendo, ravvicinatissimo, che ha a pochi centimetri dal suo. Dura pochi secondi, non dà il tempo a Pat di intervenire. L’uomo dice ancora qualcosa, quasi toccando Malcom, poi si volta e con la stessa decisione con cui è entrato se ne va, quando Pat riesce a liberarsi dal tavolo in cui è impegnato in una discussione su una partita legname che i membri si una piccola società aborigena intendono vendere a un grossista bianco, è già lontano.
“Quel tizio non può venire qui a minacciarmi,” dice Malcom.
“Che ti ha detto?” Fa Pat.
“Non può venire qua e minacciarmi. So come sistemarlo.”
“Ma chi era? Non s’è mai visto da queste parti.”
“È di Mount Hagen. Dice di rappresentare non so chi.”
“Così presto…” fa Pat. “Le voci corrono.”
“Non mi può minacciare. Ne parlerò al governatore.”
“Lascia perdere il governatore. Quel tanghero non può esserti di nessun aiuto. Scoprirò io chi è quel tizio.”
“Cazzo se era brutto… Sono tutti così, a Mount Hagen? Pareva un gorilla.”
“Lo sanno tutti che è la zona peggiore… Farete bene a non spingervi fin lassù.”
“Era brutto sul serio. Grugniva. Non ho capito un accidente di quel che diceva.”
“I problemi di quando si comincia. Prenderò informazioni su di lui. Ma tenetevi alla larga da Mount Hagen. Almeno per ora.”
***
L’affaire della diga di Purari cominciò la sera in cui un rappresentante della Compagnia incontrò per la prima volta Malcom Kelly a Brisbane, nella hall del Sofitel, e Malcom gli parlò di quella faccenda dei tronchi. Una storia senza capo né coda, una strada da costruire nel cuore della Papua, tra Kundiawa e Mount Hagen, finanziata coi proventi del legname di una foresta da disboscare. Fantasie. Nulla di cui occuparsi seriamente. Ma Malcom fu molto insistente e l’uomo della Compagnia fu costretto a dargli retta.
Kelly aveva il controllo di metà dell’affare. Aveva ottenuto da certi governanti amici suoi una concessione per abbattere gli alberi. Cose di cui s’intendeva, era il suo campo, aveva cominciato come boscaiolo, poi piccolo imprenditore e mercante di legname, sapeva come destreggiarsi con le foreste. Cercava un socio che si occupasse dell’altra metà dell’affare, qualcuno che costruisse la strada. Questa spartizione di compiti gli pareva un’equa proposta. Lui ci metteva la concessione forestale, l’appoggio logistico e la conoscenza del Paese. In cambio, dal socio voleva – guardacaso – un po’ di soldi per cominciare.
Malcom frequentava da anni la Papua New Guinea, sapeva come muoversi in quel territorio ancora in buona parte selvaggio, sminuzzato in una miriade di minuscole comunità tribali governate da leggi violente e primitive. I landowners, le tribù locali, che a sentire Malcom andavano tenute in gran conto.
Erano la particolarità del Paese. Senza i landowners in PNG nessuno riusciva a combinare nulla, per quanto tecnologicamente avanzato, organizzato e potente. Le società minerarie, i grandi guppi petroliferi che da anni fanno affari in PNG, hanno tutti dovuto venire a patti coi landowners. Ma Malcom sapeva come risolvere questo problema, ci teneva a far capire all’uomo della Compagnia quanto fosse esperto e preparato in quel campo. Aveva un amico, che i landowners stimavano e rispettavano. Quasi veneravano. Questo tale ci sapeva fare con loro. E sapeva come muoversi a Port Moresby, la capitale, dove imperversavano i capi politici che raccoglievano e amalgamavano il consenso delle tribù. Malcom si dilungò in minuziose spiegazioni su come funzionano, in PNG, i precari equilibri tra potere locale disperso sul territorio e potere centrale che va addensandosi a Port Moresby; e tra le vecchie e brutali tradizioni dominanti nei villaggi, e le nuove, più moderne ma non meno spietate regole di governo della capitale.
D’aspetto, aveva i tratti tipici del bullo coloniale anglosassone: corporatura massiccia, mascella volitiva, deliberatamente sciatto nel vestiario (portava gli stivali e lo Stetson, la brutta copia di un goffo cliché di cow-boy). Capelli fini e lisci, di un biondo spento, carnagione lattea da celtico, che chissà come s’era adattata al feroce sole dei tropici australi. Parlava un inglese masticato, duro da comprendere anche a un orecchio ormai addestrato al forte accento australiano.
Chissà come, gli era arrivato alle orecchie il nome della Compagnia, che aveva di recente aperto una base a Brisbane, la prima in Oceania. Benché fosse una delle più note compagnie di costruzioni del vecchio continente, era ancora sconosciuta in quella parte di mondo. Ma Malcom era uno svelto, li aveva subito fiutati. Aveva avvistato un newcomer interessante. E per uno svelto come Malcom, un newcomer interessante può essere sempre due cose: un potenziale alleato o una preda da spolpare. A volte entrambe le cose allo stesso tempo. Non era un caso che quella sera fosse andato a farsi un giro al Sofitel, dove sapeva che l’uomo della Compagnia alloggiava.
L’uomo della Compagnia gli disse che l’affare non lo interessava. La Compagnia si occupava di ben altro: grandi progetti, dighe, porti, ferrovie. Una stradina che attraversa un pezzo di foresta, per di più da finanziare col taglio dei boschi, non era roba che potesse riguardarli. Consumarono un paio di drink al bar dell’albergo e pensò di averlo liquidato.
Ma Malcom, oltre che svelto, era tenace. Il giorno dopo tornò a cercarlo, stavolta con una proposta più interessante. Aveva recuperato chissà dove il vecchio studio di fattibilità di una diga. Un progetto idroelettrico da 2000 Megawatt sul fiume Purari. Un progetto enorme, per la Papua Nuova Guinea, che in tutto il suo territorio non arriva a mille Megawatt di potenza installata. Quella centrale avrebbe più che triplicato la capacità di produzione di energia elettrica dell’isola, un balzo fantastico, quasi irrealistico se non vi fosse stata quella facceda dello sviluppo accelerato dell’oil&gaz, a renderlo plausibile…
Stavolta l’uomo della Compagnia parve interessato. Per tipologia e dimensioni, a prima vista il progetto pareva adatto. Se in PNG la Exxon aveva appena investito miliardi di dollari e la Total stava per fare altrettanto, voleva dire che c’erano prospettive di sviluppo e circolava già abbastanza denaro. E c’era ancora poca o nulla concorrenza, un territorio quasi vergine nel campo delle infrastrutture. Di cui, proprio per le prospettive di sviluppo aperte dall’esplosione dell’oil&gaz, il Paese aveva estremo bisogno.
Queste le riflessioni dell’uomo della Compagnia. Che a proporre l’affare fosse uno come Malcom, doveva certo tenerlo all’erta, ma non valeva come obiezione: in posti come la PNG è quasi sempre dai bassifondi che emergono le occasioni migliori.
***
Nacque così la prima idea del progetto. Ed ecco ora Malcom e Francis a bordo di un pick-up attrezzato per i percorsi d’altura, che apre il piccolo convoglio di altri due mezzi leggeri e un camion, lungo la strada che da Goroka, passando per Kundiawa, direzione Mount Hagen, porta a Purari.
La ‘strada’ non è degna di questo nome. È a malapena un tratturo sterrato, poco più di un sentiero che segue il crinale. Un’interminabile successione di curve, discese e salite. Attraversa un territorio perlopiù collinare e non troppo fittamente coperto di vegetazione, correndo lungo lo spartiacque.
È difficile muoversi in PNG. Le vie di comunicazione sono poche, dissestate e insicure. Malcom se ne lamenta con Francis, mentre, dopo sei ore di scossoni, attraversano l’ennesimo villaggio indigeno e cercano faticosamente di avvicinarsi all’ansa del Purari.
“È una vergogna che questo paese abbia strade così primitive,” dice Malcom.
Il villaggio è composto di una dozzina di capanne, non di più. Comunità rurali minuscole, disperse in un territorio vastissimo. Donne con bambini in grembo, attaccati a seni vizzi, si affacciano alle soglie di abituri miserrimi. Non c’è nessuna accoglienza festosa né incuriosita al loro passaggio. Uomini compaiono alle spalle delle donne, con attrezzi da lavoro in mano. Attrezzi che possono anche essere strumenti di difesa, o di offesa: forche, picche, bastoni. Volti severi e tesi, nessun sorriso. Non c’è l’atmosfera curiosa e allegra dei villaggi africani.
Picche e bastoni servono a governare le bestie, maiali perlopiù, raccolti in piccoli recinti sul retro delle abitazioni. Alcuni capi vagano bradi tra le capanne, se le soglie sono incustodite entrano dentro. Uomini e bestiame convivono: suini, capre, qualche pecora, pollame. Non si vede alcuna traccia di agricoltura. Stranamente. Non ci sono campicelli coltivati nei dintorni del villaggio. Del resto, è un villaggio davvero minuscolo, e talmente arretrato… Una comunità di non più di una cinquantina di persone, forse un’unica famiglia. Non c’è nemmeno traccia di edifici comuni: una casa di culto, una scuola, un luogo di ristoro. Abituri e basta. Osservano il convoglio sfilare lento, con sguardi freddi e ostili. Si percepisce che gli stranieri non sono benvenuti da queste parti.
“In nessun altro luogo del pianeta ho visto villaggi tanto miserabili, Francis,” dice ancora Malcom.
Alla guida del pick-up, Francis sorride, non commenta. Anche se quello è un villaggio della sua gente, lui è un aborigeno come loro. Che cambiamento fantastico, nell’arco di appena due generazioni. Un ingegnere minerario laureato a pieni voti in una delle migliori università australiane. Cinquant’anni fa, probabilmente non ne esisteva neanche uno in tutta la PNG. Il fatto che il padre di Francis si sia arricchito coi coloni bianchi, sia stato abbastanza furbo da mettersi in affari con loro e abbastanza carogna da non farsi fregare troppo, da fregarli un po’ a sua volta, ha permesso a Francis di studiare. Di diventare quello che è oggi, un ingegnere ben educato, un’ex-stella del rugby di uno dei migliori college di Melbourne. Uno che parla e scrive in buon inglese, non nel broken English di suo padre. Un ragazzone abbastanza fine da sorridere anche quando Malcom dice, in tono deliberatamente offensivo:
“Questa terra fa schifo, Francis. L’Africa è stata colonizzata molto meglio.”
A Malcom questi discorsi piacciono, e con Francis può permetterseli. Gli piace ricordare i tempi d’oro delle colonie e ha teorie tutte sue sui rapporti di razza, sul posto dei bianchi e quello dei colored. Il suo rapporto con Francis è improntato a quel quel tipo di familiarità subordinata per cui può esporle brutalmente, e l’altro si sente in dovere di ascoltare senza ribattere. Può farlo, con Francis, non se la prende mica, quel ragazzone.
Dietro di loro, segue un altro pick-up con due assistenti. Poi il camion carico di attrezzature. Strumentazione topografica, trivelle e aste di perforazione, un generatore, lampade per l’illuminazione notturna, bobine di cavo elettrico, pompe e tubi di aggottamento, legname, una saldatrice. Anche i cassoni dei pick-up traboccano di roba, caricata alla rinfusa e coperta con teli fissati alle sponde da corde di canapa. Chiude il convoglio il fuoristrada della polizia. Lampeggiante acceso, quattro agenti armati di scorta, l’unico contatto radio più o meno efficace con Goroka. Ma la rete di ripetitori che copre il territorio non sempre funziona, neanche le auto della polizia sono i grado di mantenersi in contatto ovunque.
“La prossima volta che ci spingiamo fin quaggiù ci portiamo dietro un satellitare,” dice Malcom. S’accende un Montecristo.
I villaggi si susseguono. Ve ne sono di continuo, a distanza di alcuni chilometri l’uno dall’altro. Tutti minuscoli e simili tra loro. Remoti, estremamente isolati, estremamente arretrati… Poche famiglie, separate da tratti di jungla, o boscaglia più o meno fitta, o tratti brulli di rilievi rocciosi. Una rete rada e minuta, ma diffusa ovunque, di elementari presidi umani che punteggiano il territorio. Come se ciascun microscopico insediamento avesse messo, tra sé e gli altri, una zona di rispetto, la cui ampiezza misura lo spazio necessario alla sussistenza, delimita il territorio vitale del gruppo. E, in tutti, quell’impressione respingente di ostilità, gli sguardi fissi e silenziosi della piccola comunità violata sul convoglio di forestieri. Impressione di ostilità crescente a mano a mano che s’inoltrano nell’interno, consultano mappe, si avvicinano a Mount Hagen, cercano di mantenersi in direzione del Purari.
A differenza delle altre grandi vicine indonesiane, il Borneo e Sumatra, l’isola della Nuova Guinea non è un denso e impenetrabile ammasso di foresta pluviale, la jungla è spesso interrotta, intermittente, squarciata da tratti brulli, aridi e disboscati. Disboscati forse dalla mano dell’uomo. Il clima, equatoriale, è lo stesso, le piogge sono fitte e abbondanti, la vegetazione, laddove prende possesso del territorio, è dirompente e violenta. Ma a differenza del Borneo la Nuova Guinea ha subito, in passato, una prima ondata di civilizzazione umana. Un principio di agricoltura, tra i primi luoghi del pianeta dove ciò sia avvenuto. A immaginarlo oggi pare incredibile, ma è scientificamente provato che è così, se ne sono ritrovati i resti. Questo selvatico lembo di terra è stato una delle culle che hanno ospitato il primo passaggio degli uomini dallo stato di vita nomade, basato sulla caccia e l’allevamento brado, a un iniziale embrione d’economia agricola e di comunità stanziale. All’incirca diecimila anni fa.
Poi, non si sa bene per quale ragione, questo principio di coltura s’interruppe. Forse cataclismi naturali, violente eruzioni vulcaniche, seguite da terremoti e maremoti. Chissà. Qualcosa spazzò via quell’alba di incivilimento, innescata da un fondamentale progresso alimentare, da un nuovo modo di procurarsi il cibo, fondato su un legame stabile, economicamente interessato, con la terra.
Qualcosa allora cancellò quei primi passi, fermò quell’inizio di evoluzione. Che invece, suppergiù proprio negli stessi anni – dieci millenni or sono – s’innescò indipendentemente, attecchì meglio e progredì altrove: Medio Oriente (grano) Cina (riso) Messico (mais e fagioli) Sud America (patata) Nord America (girasole): i cinque luoghi al mondo, oltre alla Nuova Guinea, ove sono state trovate le prime tracce di agricoltura. In almeno quattro di loro l’insediamento stabile e lo sviluppo di conoscenze legate alla coltura della terra e all’elaborazione dei prodotti agricoli hanno acceso focolai di civiltà, che per molti anni si sono sviluppate separatamente, in modo del tutto autonomo, distinte l’una dall’altra e non comunicanti tra loro. Se la PNG avesse proseguito, avrebbero potuto essere cinque.
Oggi la specie umana che popola quest’isola sembra aver regredito rispetto a quell’ancestrale, abortito principio di sviluppo. Un sentiero interrotto. Ma il paese conserva cicatrici di quelle prove, le ampie fasce ancora disboscate, dove la foresta non è tornata, appaiono come vestigia di territorio strappato molto tempo fa alla jungla, che per qualche ragione la jungla non s’è ripreso.
A differenza di altri, la PNG non è un luogo primitivo. È un luogo tornato primitivo. E conserva tracce, nell’indole cupa dei suoi abitanti, di quel tentativo fallito che li ha lasciati così indietro nella storia.
Quando fa buio devono fermarsi. Fanno campo base per la notte in una radura abbastanza lontana dai villaggi. Ma sentono comunque una presenza, lì attorno. Qualcuno che li segue, li osserva. I poliziotti montano di guardia armati, si danno il cambio.
Gli assistenti di Malcom accendono un fuoco, cuociono del cibo in scatola, fanno il caffè. Si dorme a bordo dei veicoli, scomodamente. È una notte tesa. Si avverte la presenza costante di qualcuno, lì attorno. Sono spiati, sorvegliati. Non si sa da chi. C’è un presidio permanente attorno al convoglio, che ormai li accompagna. Anche quando, la mattina dopo, alle prime luci dell’alba si riparte.
Poco dopo mezzogiorno raggiungono l’ansa del Purari. Riescono a scendere in riva al fiume, i topografi rizzano i treppiedi, montano i teodoliti, iniziano i rilievi. Francis e Malcom stendono i disegni sul cofano del pick-up, li orientano, cercano di riconoscere conformazioni naturali: quella roccia, quell’asperità montuosa, quell’isolotto di ghiaia nel letto del fiume. Punti notevoli, servono ad agganciare il territorio alla rappresentazione in piccola scala che ne dà la mappa. I topografi misurano con gli strumenti o stendendo le bindelle. Francis dà indicazioni. Grossomodo, si capisce dov’è posizionato l’asse della diga.
Il campo base, sul greto del fiume, è allestito con tre tende e un piccolo gruppo elettrogeno. Hanno viveri e carburante per una settimana, ma i rilevi non dureranno tanto a lungo. In quattro, cinque giorni quel primo sopralluogo dovrebbe raccogliere informazioni sufficienti. I geologi ispezionano la roccia, raccolgono campioni di terreno da mandare in laboratorio per le analisi: granulometrie, limiti, composizione chimica.
È una valle di pareti scoscese, rocciose e nude. Il Purari scorre al centro di un letto di ghiaia troppo ampio per l’attuale portata del fiume. Siamo nel periodo più asciutto dell’anno. Tra qualche mese le piogge si intensificheranno e il livello salirà. Allora sarà molto più difficile raggiungere l’ansa del Purari lungo i sentieri sconvolti dalle piogge. La vegetazione, sul fondovalle, è rada. Boscaglia, cespugliame sparso, la jungla fitta sembra lontana.
I primi tre giorni di investigazioni procedono senza ostacoli. Malcom cura l’organizzazione, la logistica, è lui il capo della missione. Francis si occupa della parte tecnica, distribuisce il lavoro a topografi, geologi, operai, assegna compiti, raccoglie e cataloga informazioni. Tutto fila liscio fino al quarto giorno, quando arriva quel tizio.
Lo stesso selvaggio del Grand Papua. Ma stavolta non è solo. Compare con una dozzina di uomini al seguito, armati di machete e bastoni. I quattro agenti di polizia, con le mitragliette in vista, si mettono all’erta, sorvegliano la situazione.
Che si fa subito tesa. L’uomo, nel suo habitat, merita di essere descritto meglio. Ha una testa enorme, ossuta, capelli rasati quasi a zero che mettono in risalto le asperità della scatola cranica, allungata posteriormente e schiacciata sulla fronte, aggettante in due massicce arcate sopracciliari. Occhi infossati, fondi scuri e iniettati di sangue, zigomi alti e prominenti, naso largo e schiacciato. Ma sono la mascella e la mandibola che, più di tutto il resto, danno carattere a quel volto, che pare scolpito a colpi di mazza da fabbro ferraio. Mascella e mandibola sono gigantesche. Comparato alla testa e al volto, il resto del corpo, pur robusto, pare minuto. Non è molto alto, forse meno di un metro e ottanta, ma largo e pesante, con due braccia smisurate e mani enormi.
Abborda Malcom senza tanti complimenti. Parla un inglese rozzo, ma fluente; e non si può stargli troppo vicino, perché le sue enormi labbra grigiastre e screpolate sono perennemente irrorate di saliva, che spruzza ovunque. La salivazione abbondante è un’altra caratteristica che colpisce in lui. Inarrestabile e per nulla repressa.
Quest’uomo non si curerebbe delle buone maniere neanche se sapesse che cosa sono, ma non è un ignorante, a suo modo sa cosa vuole e ha ben chiaro come ottenerlo. Va dritto al punto e non ha esitazioni su cosa dire e come. Dovete andarvene, intima a Malcom. Questo è territorio della mia tribù. Pronuncia quella parola, landowners, di cui chiunque conosca un po’ la Papua comprende subito il significato. Lo capisce Malcom, che ha frequentato abbastanza la PNG da sapere di che si tratti.
“Va bene,” fa Malcom. “Abbiamo già raccolto le informazioni di cui abbiamo bisogno. Domattina ce ne andiamo.”
“No, andate via subito.”
“Ragiona,” fa Malcom. “È tardo pomeriggio, tra poco fa notte. Dobbiamo smantellare il campo, caricare la nostra roba. Non possiamo viaggiare col buio. Domattina.”
Trattano. Giungono a un compromesso. Leveranno le tende domattina all’alba, ma fino ad allora resteranno chiusi nel campo, sarà loro impedito di muoversi nei dintorni. Malcom e i suoi non potranno andare in giro a studiare, ispezionare, eseguire rilievi, men che meno raccogliere campioni, fino a domattina. Né cacciare, né pescare, né altro. E Iroka – così si chiama l’orco – lascerà lì i suoi uomini a sorvegliarli. Resteranno di presidio intorno al campo.
“D’accordo,” fa Malcom.
Iroka se ne va.
Fine della prima puntata (continua)