Fuori dal Palais des Festivals
Lui e gli squali
A Cannes il doppio film di Sorrentino su Berlusconi ci sarebbe stato benissimo. Soprattutto per quello sguardo da squalo di Toni Servillo... Meglio, molto meglio di Lars Von Trier, per esempio
Parlare di Loro 1 & 2 di Paolo Sorrentino qui da Cannes può sembrare beffardo, perché qui, dove il regista napoletano è comunque molto amato, il suo film ci sarebbe stato bene. Non tutto magari, ma di certo in buona parte. Che a nostro avviso comincia con l’ingresso in scena di Toni Servillo, in una delle sue performance più convincenti. Tra le tante. È sufficiente al nostro socchiudere la palpebra, anche solo una, per comunicarci un universo di disagio e impenetrabilità. Lui, che non si offende mai di nemmeno di fronte alle più cocenti offese, ricorda molto la descrizione che Robert Shaw alias Quint fa nel film Lo squalo: «Sai che hanno di strano gli squali? Hanno degli occhi senza vita. Sono palle nere senza luce dentro. E quando uno ti si avvicina non credi neanche che sia vivo finché non ti morde». Lui è esattamente così, nei momenti di irresistibile simpatia e di spietata ferocia: impenetrabile.
Se il film di Sorrentino non avesse avuto quel lungo prologo che non riusciamo a non definire “sorrentiniano”, avrebbe guadagnato in compattezza, e il regista sarebbe così sfuggito al compiacimento che talvolta lo domina facendo diventare egli stesso il Lui del film. Per il resto, grandi prove anche degli altri attori, nessuno escluso, ma una particolare citazione merita Veronica, interpretata da Elena Sofia Ricci, oramai in grado di spaziare tra i toni della commedia più becera, tipo Il tuttofare, e le tinte soffuse e malinconiche della moglie tradita e innamorata. Almeno fin quasi alla fine del film, dove si realizzerà una catarsi che vedrà i due coniugi dare vita ad un match che mai nessun giornalista, nella realtà, è stato in grado di realizzare.
Qui a Cannes nel frattempo sono successe, succedono e succederanno un sacco di cose. Abbiamo giusto visto il nuovo film di Lars Von Trier, The house that Jack built. Interpretato benissimo da Matt Dillon, il film riesce ad essere vuoto e disturbante allo stesso tempo, con immagini di violenze così compiaciute che finiscono con lo scaraventare lontanissimo l’ironia che aveva invece permeato una prima parte potabile. Comunque, il danese è maestro nel somministrare specchietti che tante allodole finiscono regolarmente per assumere. E infatti. Nei giorni scorsi Jean-Luc Godard aveva regalato con Le livre d’image la sua ultima provocazione con un film ingiudicabile con i parametri consueti, e quindi già per questo notevole. Detto ciò si può benissimo dire che il maestro francese si può anche rifiutare, ma questo non cambia i termini della situazione. Non so se andrei a vedere al cinema quest’ultimo Godard, ma non è questo il punto. Questo è.
Alice Rohrwacher ha portato la sua favola realistica in questa passerella che giustamente l’adora. Interpretato dalla fida sorella Alba, Lazzaro felice realizza felicemente (Umberto Eco ammette la ripetizione se è indispensabile) un esempio impeccabile di realismo magico senza perdere mai il rigore di uno stile che già dopo pochissimi film appare inconfondibile. Presto vi renderemo conto di Euforia di Valeria Golino e di Dogman di Matteo Garrone. Più, sempre con Alba Rohrwacher, Troppa grazia di Gianni Zanasi, tutte pellicole, questo possiamo anticiparlo, piuttosto imperfette anche se per motivi totalmente differenti.