A proposito di “Bambole e schiavi”
Gli schiavi di Paris
Il nuovo romanzo di Renzo Paris racconta di uno scrittore di bugie e una donna di tragedie vere: l'epopea di un intellettuale stanco che incontra una migrante degli amori fallimentari
“Non ci si mette mai l’anima in pace, per vecchio che uno sia” (Philip Roth): in esergo al nuovo libro di Renzo Paris troviamo varie citazioni, fra cui questa, che ne illumina magnificamente sia il contenuto sia la cifra morale. Bambole e schiavi (Elliot) è uno degli esempi più riusciti di Autofiction – una tendenza narrativa dei nostri anni, che ha molto a che fare con l’autobiografismo, con il raccontare se stessi – in cui si può imbattere di questi tempi. Quanto c’è di vero e quanto di inventato, o di romanzesco, nel romanzo di Paris, è un problema che l’autore risolve di slancio, con istinto realistico, spezzando anzitutto in due il punto di vista: – da una parte il vecchio scrittore libertino, ex sessantottino, ex “impegnato” che si racconta con spudorata e dolente sincerità, nei suoi acciacchi e nei suoi desideri perlopiù repressi, nella sua idea disincantata e laica del mondo, nei suoi rapporti ancora tormentati con le donne della sua vita – ex mogli (più di una) e amanti di vario grado e genere. L’altra voce è quella di Dana, bellissima ventenne romena che gli narra, sotto promessa di compenso, la sua rischiosissima e accidentata esistenza nel corso di una settimana, in un albergo viennese. L’uomo la interroga, la osserva voyeuristicamente anche mentre dorme, la desidera, la vampirizza come sanno fare gli analisti, ma anche i romanzieri quando si innamorano dei loro personaggi.
L’anziano scrittore romano protagonista del romanzo è evidentemente l’autore, Renzo Paris, le coordinate biografiche corrispondono; però si chiama Francesco, e si trova a Vienna in una specie di laico pellegrinaggio alla casa museo di Freud. In onore al genio della psicanalisi, che così tanto ha inciso su di lui, sulla sua formazione (il libro è pieno di sogni angosciosi, ripetuti nel tempo, di colpa e espiazione, che lo scrittore cerca di interpretare o semplicemente registra). Ma forse ha soltanto trovato un pretesto per allontanarsi da Roma, per starsene un poco per i fatti suoi a meditare, lontano soprattutto dalle sue donne che gli scrivono mail ingiuriose, a ruminare sulla sua decadenza fisica e sul suo inesauribile amore per la giovinezza. Quel “desiderio senza desiderio”, che si trova nei romanzi di Svevo e Kawabata, soprattutto quest’ultimo, che ricorre più volte, quasi al modo di una guida spirituale, nel corso della narrazione.
La lingua che sceglie Paris per il proprio alter-ego è prevedibilmente più strutturata e colta e introspettiva rispetto a quella, media, più “parlata”, che serve alla ragazza per raccontarsi e per descrivere il suo mondo – il mondo cinico e violento che ha conosciuto fino a quel momento – senza peli sulla lingua e con giusto senso drammaturgico. Le due voci, che hanno diversi caratteri di stampa, si alternano in capitoli creando un omogeneo tessuto narrativo.
Ma torniamo un momento su Dana, la quale ha alle spalle una vita breve quanto travagliata, fugge da intrighi di tutti i generi, fra malavita e echi di terrorismo islamico, fugge da uomini che la sfruttano e la ingannano e la seviziano e la vendono, nel migliore dei casi da una routine deprimente da cameriera privata o da badante: “L’avvocato aveva appena toccato i novant’anni e a me faceva senso vederlo trascinarsi per casa, scatarrare, e soprattutto mi veniva da vomitare quando gli dovevo cambiare il pannolone pieno di una merda puzzolentissima”.
La donna che Francesco ha di fronte, pur tanto giovane, è già carica di disgusto, di disinganno e di paura, ma spera ancora di salvarsi, magari sposando un contadino della Marsica (come hanno fatto molte sue connazionali) o un vecchio agiato professionista romano che possa lasciarle un’eredità. Vagheggia ancora un poco una casetta e un giardinetto a Ruscova, il piccolo villaggio dei Carpazi dal quale proviene, benché quando vi è tornata per qualche tempo, lo abbia trovato trasfigurato, un paesaggio di miseria, invaso dalla gramigna, da un’incuria fatale. Osservava il prato spelacchiato davanti alla sua baracca, ripensando tristemente al passato, al suo uomo, l’uomo che amava, Vasil, che la “portava a battere anche se inventavo di avere le mestruazioni, che avevo le gambe insanguinate. Non gliene fregava niente”. Un amore assurdo e tuttavia tenacissimo.
Quello di Dana è un ritratto purtroppo credibile di giovane donna dell’est dei nostri anni che mi ha fatto ripensare per analogia alla Mira, giovane prostituta albanese, del romanzo omonimo di Oliviero La Stella. Cambiano i flussi migratori, diresti, ma la sostanza è più o meno la stessa.
Raccolta la sua confessione, dopo aver visitato ancora una volta la casa di Freud, Francesco torna a Roma, alla sua vita di sempre. Dinanzi allo schermo del computer, si domanda come riuscirà a organizzare il lavoro che lo aspetta, e già prova una virulenta nostalgia per quella creatura giovane, bella e disperata, che ha attraversato la sua vita come una meteora, e se ne è andata via chissà dove forse per sempre: “Una lacrima fredda mi rigò la guancia. Le vita per quelli come me poteva essere soltanto contemplata. La mia resa dei conti con la gioventù era terminata”. Ma c’è ancora spazio per un grottesco e quasi comico agguato di una sua qualche ex, parruccata di biondo, che gli spara sotto casa con un piccolo revolver, per fortuna colpendolo solo di striscio; e per alcuni magici brandelli della sua infanzia contadina nella Marsica: i genitori che ballavano un tango struggente e dolcissimo nella cucina, la polenta fumante spalmata sul tavolo di marmo, con le appetitose salsicce appoggiate sopra, e tutta la famiglia attorno a contendersi il centro, “la plaga di sugo rosso”. Insomma un libro forte, bello, questo Bambole e schiavi di Renzo Paris, che non intende consolare e che non lascia indenni.