Arturo Belluardo
Una storia (quasi) splatter

Versipellis

«Davide stava alla Filiale Mutui come dentro al treno, una fase di passaggio quotidiana per poi volare verso la vita: accumulava conteggi di estinzione, imputazioni proporzionali di pagamenti (che però si proclamavano sempre innocenti), bonificava conti schermati...»

Davide ha sempre vissuto il suo lavoro di traverso, ha sempre cercato di assumere una collocazione laterale come nelle cuccette a sei dei treni di seconda classe che andavano in Sicilia. Non ci entrava mai, troppo corte, troppo strette, si doveva ingegnare a trovare una posizione indifferente. Al troppo caldo, al troppo freddo, al tanfo di nafta, di piedi, di alitosi, di gas intestinali, di residui di cena, di mortadelle, di bucce d’arancia. Cercare di dormire qualche ora, resistere fino all’arrivo sul traghetto, quando il treno veniva smontato carrozza a carrozza e infilato come una confezione di Meccano nella sua custodia: era allora il momento di scendere, a qualsiasi ora del giorno e della notte, e di salire scale strette e scivolose di fango di alghe per mangiare le prime arancine, grondanti olio cattivo, sugo e piselli.

Davide stava alla Filiale Mutui come dentro al treno, una fase di passaggio quotidiana per poi volare verso la vita: accumulava conteggi di estinzione, imputazioni proporzionali di pagamenti (che però si proclamavano sempre innocenti), bonificava conti schermati, si schermava dietro l’antiriciclaggio, accoglieva clienti in bianco, clienti in rosso e clienti in nero. A questi ultimi, porgeva distinte distinte con un sorrisetto sardonico e complice.

“Embè, embè, embè, signor Giovanni”.

“Bella botta, eh dottò?”.

“E questi li dobbiamo frazionare…”.

“E noi frazioniamo! Facci lei, ma non nei librettini che non me rendono un cazzo”.

“Due librettini, un certificatuccio e tre fondi?”.

“Seee… i fondi, quelli mi affondano, i fondi. Se le ricorda le Parmalat?”.

“Su, che ne siamo usciti bene…”.

“Siamo, e che erano soldi suoi? A stento ci ho ripreso il mio… E come sarebbero ‘sti fondi?”.

“So’ lussemburghesi. Qua va tranquillo, sono Sicav”.

“Cav? Come il cav? Come Berlusconi?”.

“Proprio”.

E si illuminava il signor Giovanni, il pizzicarolo rivestito delikatessen con parannanza black and gold, con il gold ricamato a mano Da Giovanni, 50 anni di tradizione.

“50 anni di estradizione ti dovrebbero dare, con una mano inferriata in faccia a spegnerti quelle rughe da faccia di cazzo, proprio tutta sulla faccia a piantarti le dita nelle orbite e nelle orecchie sporche di pelazzi neri”.

“Come dice, scusi?”.

“Neri, questi sono tutti neri, vero?”.

“Ma se sente bene, dottò. C’ha uno sguardo strano, stralunato, se fossi una gran fregna, penserei che è allupato!”.

E Davide gli sarebbe voluto saltare alla giugulare, affondargli denti da licantropo a svenarlo sul serio, non con azioni, obbligazioni, derivati, opere e omissioni. Tre Paternoster e due Avemarie. Altro che mandarlo via assolto, bonificato, purificato e alleggerito. Tirargli fuori le budella al sorgere della luna piena e attorcigliarsele fumanti tra zanne e palato, pajata de noantri, de cinquant’anni de tradizione. Mica cazzi.

 

Davide si vede come un versipellis.

Versipellis.

A Davide è sempre piaciuta questa parola latina che definiva i licantropi: pelle rosea e liscia da culetto di bimbo all’esterno, folta peluria di canide assassino all’interno.

Ci aveva pure scritto una storiella splatter quando aveva vent’anni; era la storia di un lupo, nato dall’accoppiamento tra un prete licantropo e una lupa, che al sorgere della luna piena si trasformava in bambino e massacrava il contadino che l’aveva raccolto nel bosco, pensandolo un orfano abbandonato. Era palesemente scopiazzato da Dylan Dog, ma c’era però una scena molto carina: quando al calar della luna, il bambino si andava mutando in belva nella culla, con tutti i ringhi, rantoli e borborigmi della specie, il contadino, scambiandoli per coliche intestinali, metteva per farlo addormentare un lp di canzoni Disney sul giradischi. E veniva sbranato al suono di Who’s afraid of the big bad wolf?.

Così Davide è sempre sopravvissuto alla noia del quotidiano, canticchiando la canzoncina ogni giorno che vedeva scorrere i flussi di cassa davanti a sé. Lui è oltre, questo non lo tocca, l’importante è sopravvivere, uscire e cambiare pelle, pompare ferro su parquet allagati di sudore e colofonia, correre su nastri che portano nel nulla, correre e rimanere sempre allo stesso posto, come negli incubi di Salvador Dalì, stordirsi di apericene e Bloody Mary, di dj set all’Alcazar, uno schizzo d’angostura e una pippatina quanto basta.

Davide è oltre, Davide è altro: scrive pure poesie, pubblica sillogi a pagamento da Arduino Sacco Editore, edizioni raffazzonate, piene di refusi, vedovelle e di d eufoniche. Edizioni del cuore, del cuore di Davide che le estrapola piangendo e sorridendo obliquo ai colleghi e ai clienti: “Beati voi che non capite un cazzo”.

Si firma Versipellis, che se in Banca sapessero.

Alla fine Davide è riuscito, anche non volendo, a diventare il Preposto della Filiale Mutui. La sua Banca si è fusa, incorporata, scissa, delistata, aggregata, nuovamente ammessa a quotazione al listino di Milano, Francoforte, Londra, Miami e Bari Palese. E nel processo, trasparente e palese, di trasformazione, ridefinizione, riorganizzazione, le teste dei superiori sono cadute, cassintegrati, fondoesuberizzati, accompagnati, incentivati all’esodo. Una processione biblica di evidenziatori e ticket mensa, di folder e di tastiere tutte allineate a formare un ponte verso l’aldilà: come un tapis roulant che sfocia nell’ignoto. Quanti ne ha visti Davide, che cercavano di correre controcorrente. “Perché io? Perché io, che sempre fedele alla linea io fui e non tu?”. Tu fosti? Perché tu? Perché non io? Che ne so. E poi in fondo, SGC anzi SGAC: ‘Sti Gran Cazzi a Colori. Davide li saluta facendo ciao, regalando pacchetti per una fuga romantica, per un week-end con gusto, ma il giusto però, il giusto con gli altri, mai più di cinque euri. Davide li saluta e i canini gli pungono il labbro inferiore, stilla veloce sangue, gli occhi virano al giallo da lupo.

“Ma toccasse a me, toccasse a me, io me ne andrei, me ne andrei, ce l’ho il mio daffare, altro che, altro che”.

E però gli piace l’ufficetto con il vetro smerigliato, la poltrona di pelle e un ficus benjamin isterico.

“Se la porta è chiusa, non mi disturbate, chiaro il concetto?”.

E si occulta a scrivere poesie, poesie come fossero minestre, soffritti di parole, allungate con brodo di giuggiole, filtra emozioni in filtri d’amore, come strega beneventana e janara… Ma una capoccetta unta di riporto si insinua tra lo smeriglio e lo stipite.

“E dottore lei non mi vuole più bene”.

“Ma che dice, signor Giovanni, entri, si accomodi”.

“Da quando l’hanno fatta Direttore, non mi caga più. M’ha mandato da quello stronzetto…”.

“Giusti non le va bene? Ora l’aggiusto io”.

“Ma no, lassi perde, famo noi, che se capimo e famo a capisse”.

Famo a capisse. Fame a capisse. Come t’aprirei con un uncino da fronte del porto e ti appenderei come un cinghiale a colar sangue suino sulla carta copiativa.

 

Poi un giorno, un cinque aprile come gli altri, Davide non è riuscito più ad aprire la porta del suo ufficetto. Scuote la maniglia e niente.

Chiede agli altri, ma solo alzate di spalle e i sorrisetti ingiusti di Giusti.

Forza con un tagliacarte, spalanca la porta, non c’è più la postazione, non c’è più lo schermo, non c’è più il mouse, non c’è più la torretta, non c’è più la tastiera. La poltrona di pelle è coperta di cellophane.

“Ma che è successo?” telefona alla Direzione di Area.

“Ma non l’ha visto l’ultimo funzionigramma programmatico? Abbiamo solo due tipi di Filiali adesso, Hub e Spoke, quelle Mutui non ci sono più”.

“Ma non mi avete avvisato, detto niente, telefonato, mandato una mail, un essemmesse almeno?”.

“Lei è tenuto a consultare il funzionigramma dal portale”.

“Ma se non ho più nemmeno il terminale…”.

“Va bene, attenda che la richiamo per darle la sua nuova destinazione”.

“Per iscritto, la voglio per iscritto”.

“Ma se non ha più nemmeno il terminale…”.

“Allora attendo”.

Davide si affloscia sul cellophane, lui che ci è nato e cresciuto in quella Filiale, che ne conosce ogni battiscopa, ogni attaccapanni. Penserebbe che non gliene frega proprio niente, perché lui è altro, lui è oltre. Ma per essere altro, per essere oltre, ha bisogno di essere definito, ha bisogno del suo incarico, ha bisogno di essere messo per iscritto, ha bisogno del suo smeriglio da opporre al mondo esterno. Per tirar fuori la belva, ha bisogno che la luna piena cali. Ma il suo ufficetto, che non è più il suo ufficetto, non ha finestre. Nemmeno il ficus benjamin è più isterico, non c’è e basta. Urla, ulula, prova a cambiar pelle, ma la Filiale è vuota, i colleghi sono rotolati via verso altre destinazioni più giuste con Giusti. Ritelefona alla Direzione di Area. Una, due, dieci volte, squilla a vuoto. Telefona alla Direzione di Divisione.

“Ma che è successo? All’Area non risponde nessuno”.

“Ma non l’ha visto l’ultimo funzionigramma programmatico? L’Area…”.

“E dottore, e che è successo? Non c’è più nessuno qui”.

“Entri, signor Giovanni, chiuda la porta”.

“Ma non ci stanno più manco i computer e io come faccio con questi?”

Lancia due rotoli di banconote sul tavolo spoglio. L’ologramma della Zecca si riflette sugli occhi di Davide.

“Mi dica, lei che viene da fuori, è calata la luna piena?”.

“Ma che… sì, me pare che non c’era più. E ora?”.

“Ora mi sento meglio”.

Davide apre il cassetto e il taglierino c’è ancora.

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Accanto al titolo: Marinus Van Reymerswaele, «L’esattore delle tasse e sua moglie».

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