Raoul Precht
Periscopio (globale)

Romantico Marx

In vista del bicentenario della nascita, il film di Raoul Peck racconta la tempesta globale, quella romantica, nella quale il pensiero di Marx e Engels prese vita. Come per dimostrare che diritti e libertà non erano valori estranei all'Occidente, allora...

“Spät kommt ihr – doch ihr kommt!” (“Tardi giungete, ma alfin giungete!”), scriveva Schiller in apertura del Wallenstein; un incipit drammatico da cui possiamo partire oggi per fare un po’ d’ironia circa le traversie distributive che devono aver ostacolato finora l’uscita da noi del Giovane Karl Marx. Il film del regista haitiano Raoul Peck è comparso infatti già un anno fa, dopo la Berlinale, sugli schermi di mezz’Europa, mentre da noi arriva solo adesso – comunque sempre in anticipo, sia pure di poco, sulle celebrazioni del secondo centenario della nascita del filosofo, avvenuta il 5 maggio del 1818.

Non è propriamente un capolavoro, diciamolo subito, ma un film onesto, che vive delle sue buone intenzioni, appoggiandosi a interpretazioni più che discrete, e che ha comunque il merito di voler ripercorrere la genesi del pensiero marxiano, innestandolo com’è giusto nella temperie culturale di derivazione romantica dell’epoca, facendo di Karl e Friedrich Engels non degli alieni, ma dei figli del loro tempo, con tutte le contraddizioni che questo, sempre, comporta. E lo fa senza cadere nelle facili approssimazioni e superficialità agiografiche da fotoromanzo o sceneggiato televisivo stile RAI cui purtroppo, almeno da noi, il pubblico sembra sempre più assuefarsi.

L’ambizione del film è infatti quella di spiegare come, da una riflessione sulle punizioni inflitte dalla polizia a dei poveri contadini che raccoglievano dei rami caduti, rendendosi quindi colpevoli di furto, sia nata a partire dal 1841-42 un’intera filosofia politica che sarebbe culminata, almeno nella sua prima fase, nel famoso Manifesto del Partito Comunista del 1848. Era però già da qualche anno, suggerisce Peck, che lo spettro s’aggirava per l’Europa, magari sotto le mentite spoglie degli insegnamenti anarchici e scarsamente produttivi di Proudhon e Bakunin (che nel film giustamente compaiono e svolgono anche un certo ruolo) o delle prese di posizione di alcuni giornali locali, ben presto costretti peraltro alla chiusura dalla repressione poliziesca. Il film prende le mosse proprio dalla pubblicazione nella Rheinische Zeitung, il 25 ottobre 1842, di un articolo di Karl Marx dal titolo “Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz” (“Discussione sulla legge che disciplina il furto della legna”), serrata critica di una normativa del governo prussiano che aveva l’effetto di condannare a una miseria ancora più nera strati sociali già provati dalle ciniche leggi di un capitalismo selvaggio. Della Rheinische Zeitung Marx era stato prima collaboratore, pubblicandovi fra l’altro infuocati articoli sulla libertà di stampa, per poi assumerne proprio nell’ottobre del 1842 la direzione, ma per breve tempo. Il giornale sarà infatti prima sottoposto a forti censure, e poi definitivamente soppresso su ordine diretto di Federico Guglielmo IV.

La successiva avventura pubblicistica di Marx saranno i Deutsch-Französische Jahrbücher, dei quali, per dissensi interni al gruppo fondatore, uscirà tuttavia un solo numero, nel febbraio 1844. Espulso esattamente un anno dopo da Parigi e costretto a stabilirsi a Bruxelles, Marx incontra Engels e le sue spietate analisi della condizione di vita degli operai; il filosofo teorico e il reporter cominciano a collaborare – uno dei frutti precipui di questa collaborazione sarà l’Ideologia tedesca, che però per varie ragioni non vede la luce -, mentre Marx risponde contemporaneamente alla Filosofia della miseria di Proudhon con il libello Miseria della filosofia, che confuta punto per punto le teorizzazioni, improntate a un socialismo utopistico, del pensatore francese. È il libro, questo, che prelude e conduce al più famoso Manifesto del Partito Comunista.

Stiamo parlando di un Marx ancora agli esordi, e non c’è momento nel film in cui l’attenzione dello spettatore non venga richiamata sulla giovane età dei protagonisti, che nel 1848 – l’anno del Manifesto, appunto – avranno rispettivamente 30 (Marx) e 28 anni (Engels), e in cui non si sia dunque indotti ad ammirarne per contrasto la maturità, che permette loro di trasformare l’idea in ideologia (ovvero, come diceva Barthes, in un’idea che domina); ne faranno le spese tutti i movimenti velleitari sorti in quel periodo in difesa dei lavoratori, ma ispirati più che altro a vaghi approcci egualitari e filantropici (oggi diremmo “buonisti”). Una delle grandi lezioni di Marx ed Engels è stata infatti la convinzione che una dottrina politico-sociale non poteva fare a meno di una struttura forte, senza la quale avrebbe continuato a offrire il fianco al nemico. L’altra lezione da trarre, oggi spesso dimenticata, è l’importanza – al di là delle idee professate – della credibilità fisica delle persone in questione: nel 1847 Marx ed Engels s’impongono sui loro rivali in seno alla Lega dei Giusti, riuscendo infine a trasformarla in Lega dei Comunisti, solo grazie alla loro capacità di dimostrare un impegno concreto e personale, una passione anche romantica, appunto, nel vivere quotidianamente, costretti all’esilio e a una relativa povertà, le conseguenze della loro ideologia.

Alcune scelte in sede di sceneggiatura, certo, lasciano perplessi: c’è qualche caduta di tono, e poco convincente mi sembra per esempio la narrazione del primo incontro fra i due protagonisti. Legare poi la lezione marxiana, come avviene non si sa bene perché nei titoli di coda, alle canzoni di Bob Dylan, a Che Guevara, a Nelson Mandela o ai vari movimenti Occupy non sembra aggiungere nulla, semmai anzi depriva il messaggio filosofico e politico di Marx della sua specificità; e trasformare lo Chablis in un vino rosso è una specie di delitto, che al pur indulgente recensore risulta difficile perdonare.

Il regista, comunque, mostra nell’insieme di sapere il fatto suo: già ministro della cultura nel suo paese, formatosi a Berlino, in Africa e negli Stati Uniti, Peck è conosciuto per un documentario militante su James Baldwin (I Am Not Your Negro) candidato all’Oscar nel 2016. Se qui gli manca qualcosa, è giusto un pizzico d’originalità, la capacità di provocare qua e là un moto di sorpresa nello spettatore.

Quanto agli attori, è ottima l’interpretazione della quasi-moglie di Engels, l’agitatrice Mary Burns interpretata da Hannah Steele, che buca davvero lo schermo; la sua perorazione in favore della libertà personale della donna, che le impedirebbe di legarsi a Engels con il vincolo del matrimonio, è di notevole effetto. Le corrisponde con estrema scioltezza Stefan Konarske nei panni appunto di Engels. Più che sufficiente mi pare la prova di Vicky Krieps che interpreta Jenny, la ricca moglie di Marx nonché figlia del suo mentore, il barone Ludwig von Westphalen; di certo è maggiormente a suo agio in panni ottocenteschi che nel più recente Il filo nascosto. Il meno convincente di tutti resta forse proprio il protagonista, August Diehl, che aveva però un ruolo difficile, considerando oltre tutto che si tratta della prima volta in cui la figura di Marx assurge a protagonista di una pellicola cinematografica (non era mai successo neanche in Unione Sovietica). Se insomma in qualche scena c’è in Diehl un filo di autocompiacimento, viste le circostanze magari non ha nemmeno tutti i torti.

Tornando a Schiller, la replica al verso introduttivo del Wallenstein citato in apertura è la seguente: “Wir kommen auch mit leeren Händen nicht!” (“Non veniamo mica a mani vuote!”) E questo è appunto un film che, con tutti i suoi limiti, non lascia lo spettatore a mani e testa vuote, ma anzi lo spinge a valutare e riflettere. Visto il livello della concorrenza nelle sale cinematografiche, non mi sembra cosa da poco.

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