Nuove poesie di Elio Pecora
Rifrazioni dell’Io
Essere contemporaneamente lo specchio e lo sguardo che lo abita. E in questa precaria identità osservare il tempo in una continua metamorfosi, in cui ciò che continuiamo a vedere è assente. Suggestioni dall’ultima raccolta, antica e attuale, del poeta campano
In una nota a conclusione del suo ultimo libro Elio Pecora, Rifrazioni (Lo Specchio, Mondadori), confida al lettore di aver composto gran parte delle poesie tornando nel suo paese natio, a Sant’Arsenio. Un ritorno al luogo d’origine, dunque; tanto più suggestivo se l’esito è un libro che pare situarsi con fermezza in un punto originario, della vita, della realtà, della poesia. Originaria è la voce poetica, innanzitutto; densa e profonda dietro la parvenza di una dizione conversevole; levigata come un oggetto antico amato e custodito con una lunga fedeltà; esposta ai graffi del tempo, eppure intatta come una conchiglia riemersa dalla sabbia dei millenni. Si ha l’impressione di ascoltarla, vitale e presaga intorno a noi, quella voce, con lo stesso nitore di cieli assoluti, di vento e di polvere, e di frutta matura, come in un canto di Saffo e di Alcmane. Lo stupore di fronte alla sfuggente, ma solida immanità del cosmo dei lirici greci, ricreati tuttavia – non tradotti – nel sangue e alle radici, da chi ha avuto la sorte di ascoltarti e riviverli forse in un’altra voce, nella grazia incrinata di un altro poeta (non penso a Quasimodo, ma a Sandro Penna).
Ascoltiamo: «L’ora è ferma e lucente, un pigolio/si spande fra i castagni e gli ulivi; /al desiderio basta il desiderio/ di una felicità solo sfiorata». Gli ulivi e i castagni (del Cilento, piuttosto che dell’Egeo nordorientale, non importa), incuranti di un mondo che si disfa, si elevano, sacri in questi versi, nel cielo impassibile; e sono voci oranti e trepide d’incanto, che portano al centro della scena il silenzio, contraltare del frastuono frammentato e solipsistico che ci circonda. Pecora infatti scrive per evocare il silenzio. Un silenzio sulla cui cima ombrosa convivono implacate l’attesa e l’inattendibile, la cruda maestà del tempo, la bellezza indicibile del creato; e la morte, che vi si nasconde infida e seducente, quasi ad avverarne il senso e la giustezza agli occhi di chi guarda, modulandone la vertigine del nulla in una parola necessaria, capace di indicare un’altra strada che non conduca verso l’abisso.

Anche “Io” – Pecora ne è ben consapevole – è “altrove”, o un “altro”; e l’io loquente di questo libro così antico, ma al contempo coinvolto e compromesso nel dramma del presente (eterno?), è in fondo un io-maschera che necessita di specchiarsi, come un Narciso alla fonte, in una terza persona; di estraniarsi, per potersi svelare e denudare nel proprio desiderio e in ogni paura, soggetto e oggetto di una rifrazione, come del resto avviene in ogni metamorfosi. Come se “Io” fosse contemporaneamente lo specchio e lo sguardo che lo abita, e contemplandolo, lo accoglie nel mistero di sé, in cui consiste precaria la concordia discors della nostra identità, a noi più di ogni altra cosa sfuggente ed estranea. «… Dice che il vuoto, il niente, il buio/ quelli sui quali vanno indagando nello sprofondo/ e da minaccia sono divenuti un’immensa promessa/ sa di portarseli dentro, cosmi e particole,/ e di esserne traversato e/ mentre li abita e li traversa».
Nell’immagine: Salvator Dalì, “La notte italiana”, particolare


