Antonio Celano
Storie di normali ossessioni

Lager H2O

«Ci siamo ritirati di fronte alla luce del sole. Abbiamo abitato per mesi le fogne, contendendo i liquami ai ratti, le macchie d’umido alle alghe. Di cosa dovevamo pentirci?»

Le quattro del mattino, il momento più fresco della giornata. Lentamente metto i piedi sul pavimento e per minuti me ne sto lì, a capo chino, a guardarne gli alluci ossuti. Altre volte mi sniffo le braccia appiccicose. Una volta erano ferrose, ora sanno di forte, di pelo bagnato di cane. Bene così – mi dico – non sono ancora vecchio io, con addosso quel sentore di reparto geriatrico, di reni vuoti, la pelle color piombo. Dalla finestra mi giungono colpi secchi di tosse, sospiri, piccoli rumori indaffarati.

Sempre finisce che mi paro davanti al rubinetto di cucina o del bagno. Sosto un attimo, lo studio. Poi apro e la manopola gira a vuoto perché non c’è pressione anzi, a dirla bene, perché di acqua proprio non ce n’è. Nemmeno il risucchio della canna. Quando chiudo l’attrito metallico mi dà la pelle d’oca. E ormai son gesti apotropaici, un tantino masochistici.

C’è stato un tempo che il rubinetto mi scatenava manie. Quell’atto ripetuto cinquanta volte al giorno, ogni volta nel panico. Ora solo due o tre, proprio non so rinunciarci. Ovvio m’illudo ancora contro l’evidenza. Allora succede che torno in camera e mi stendo: la sete mi succhia ogni fibra, ritorce i pensieri.

Altre volte prendo le scale: nel buio qualcuno scende con me, ci salutiamo appena. Apriamo il portone e aspettiamo. Stamattina distribuiscono gel antisettico igienizzante. È per le mani, ma ho finito per usarlo per il corpo, come tutti, basta solo non farselo finire negli occhi. Non è male in mancanza d’altro. Favorisce un’azione esfoliante della pelle, però è pure l’unico modo di eliminare germi e batteri, compresi lo Staphylococcus aureus, l’Escherichia coli e l’Aspergillus niger, assicurano. In realtà forse è l’unico modo di ricordarci un decoro di cui abbiamo fatto spreco e che non ritornerà. Però i pidocchi sulla testa ci restano, persino nelle barbe.

Quando sono di sotto approfitto dei bagni chimici comuni. Sulla mia cabina c’è scritto «20», il numero di assegnazione a cui un certo numero d’abitazioni è vincolato. Ogni sessantasette un cesso. Il quartiere segue col ventuno fino al trenta.

Tempo fa ci si buttava a precipizio per le scale rischiando d’ammazzarci, si faceva a cazzotti vicino alle cisterne, ai camion delle derrate. Poi nel trambusto si versava tutto, la gente calpestata, i vetri spaccati, la rabbia, le manganellate. Non che ora sia diverso, ma intanto siamo rimasti in pochi dopo l’apocalittico diluvio asciutto.

Confesso che alle volte ho tentato un inventario: cominciavo da grano per andare a patata, poi a piselli cetrioli tabacco. Partivo da alberi per finire a pane carne formaggi. Un vocabolario di sostantivi improvvisamente desueti. Pensavo nella rabbia: niente agricoltura, niente terziario arretrato o avanzato, niente industrie. Ora ho smesso, pensare non mi aiuta per nulla.

Ricordare mi spossa. Mi stendo di nuovo sul letto. La fame fa stopposo il cervello, il corpo come un nodoso tronco di spiaggia.

 

Notti calde, notti eterne e insopportabili. Abbiamo imparato a dormire occupando la minor superficie possibile del letto, migrando man mano nelle plaghe più fresche del materasso, il sonno danneggiato in un dormiveglia infinito. Facciamo sogni come stracci, che procedono incoerenti, che al mattino ci lascian sbalorditi, la stanchezza nelle cosce.

Ci siamo ritirati di fronte alla luce del sole. Abbiamo abitato per mesi le fogne, contendendo i liquami ai ratti, le macchie d’umido alle alghe. Abbiamo profanato i fonti battesimali incustoditi, bevendo come cani nella scodella, leccando l’acqua aspersa per terra nei litigi sabbatici. Di cosa dovevamo pentirci? Abbiamo sofferto dolori devastanti, duri come il calcare che ci incideva dentro. Intossicazioni da liquidi contaminati, cibi scaduti, acqua non potabile. Ci siamo aggirati lerci, i vestiti laceri, buttati dove capitava. Abbiamo ripagato bene la fedeltà dei nostri cani, dei gatti. Le tartarughe dei giardinetti. Come tossici. Ottusi al resto in questa estate eterna.

 

Distribuzione delle casse d’acqua. Aggirarsi circospetti al ritorno, attenti a un androne, a una strada troppo defilata, alla propria distrazione. A casa ho sgombrato la vecchia cassetta di sicurezza a muro, ci nascondo qualche bottiglia.

Nel vecchio parco comunale – tra gli spettri delle piante ornamentali – s’ingrassa il mercato nero.

 

Se qualcuno mi dice «abbiamo perso anche la gioia», io chiedo a me stesso se non l’avessimo persa già da tempo, ché da prima non eravamo più felici. Pure, quando scroscia in questo inferno una risata, attingo a una vena cristallina e fresca che scorre tra le dita come gocce di un tempo inaspettatamente ritrovato. Solo abbiamo imparato a far risparmio dei tesori, come una volta la carne si teneva nei cellieri per i giorni di festa.

Desideriamo ancora dietro questi volti asciutti, senza più maschere da montarci, telai di corpo col ventre vuoto. Sogniamo il fresco dei vecchi portici, il sugo di una pesca, teorizziamo sulle sfumature del basilico, sul fumo del ragù. Speranze con gli occhi dietro la testa, e all’indietro vorremmo riavvolgerci come un nastro e ritrovare il fertile humus di chi riposa già nei cimiteri di campagna.

A volte suona la sirena dell’allarme. Chiudo come da manuale finestre e serrande. Verranno i mosconi o le locuste a pretendere il poco che resta? L’Eterno non fa più distinzione fra il bestiame d’Israele e il bestiame d’Egitto.

E tuttavia viviamo, ci facciamo compagnia. Oggi Anna è salita su, s’è seduta sulla sedia aderendo per bene allo schienale. Ha allargato le gambe mi ha lasciato uno spicchio di posto, ho appoggiato la schiena ai suoi seni, due universi costellati di nei. Le sue dita hanno indagato i miei capelli, sollevandomi dal prurito delle lendini. Poi ci siamo scambiati di posto. Abbiamo fatto due chiacchiere attorno a un bicchier d’acqua condiviso. Da una piccola cornice i miei ci sorridevano stinti il giorno del loro matrimonio, le belle acconciature, i convitati lindi, un diffuso profumo di spigo.

 

Anna mi dice un posto dove la gente trova cibo, forse acqua. Un luogo dove la gente vive di nuovo, forse in un bosco…

C’è un posto, un luogo, ancora una speranza, allora, una leggenda. Mi aggiro snervato per casa. Su tutto – comò, letto, libri, scrivania – uno strato di polvere che pare eterna.

Di mattina presto, per strada mi strattona uno scheletro. Ha gli occhi spiritati, le labbra devastate: «acqua amico», mi dice già con più debole rabbia. A questo mendicante alzo le spalle, le mani in tasca. Mentre mi allontano continua a porre la sua domanda al nulla.

Come Giobbe me ne sto con un coccio per grattarmi sedendo nella cenere.

 

Nel dormiveglia ho sognato una città, i giochi, le strida, le giostre, i carillon. Vedevo tutto vicino eppure da lontano, da qui, da casa. Tutto era dilatato, come letto da occhi asinini.

 

Stamani i gabbiani starnazzano improvvisi dai tetti. Dentro le case l’aria è un filo di ferro, un respiro tagliato. Il silenzio improvviso mi ricorda i maiali, quel loro alzare la testa di scatto dal trogolo, il pensiero che cola via tra le fauci.

Poi un tuono. Un urlo. O un urlo che rotola come un tuono fino alle nostre orecchie, che mette i brividi. Altri tuoni e altri urli, sbattere di porte, fracasso di finestre. Le gambe si precipitano per le scale come una piena. Escono tutti. Donne uomini vecchi sotto lo scroscio forte, qualche bimbo poggia bicchieri di carta sul ciglio di strada. Il profumo delle muffe, poi l’acqua sulle dita dei piedi, i gabbiani che saettano altissimi, pterodattili lontani.

Ma è un attimo. Le nuvole in cordoni separati, il tempo di nuovo annientato, i bimbi a braccia aperte, le piccole mani umidicce richiuse. Gocce stillano lente da un tetto. Per strada una lercia schiuma di fango che qualcuno lecca.

 

Anna dice non ora, non qui, se le chiedo di fare all’amore. Nella testa ha ormai un chiodo rugginoso d’ossessione. La guardo deluso, ma di più preoccupato. Osservo il suo viso duro, ostinato. Discutiamo fino alla collera, prima che prenda le scale, che sbatta di nuovo la porta.

Fulminato me ne sto lungo sul divano, senza forze. Cosa mi resta? La fame, la sete, questa follia? No, più terribile è la solitudine, non essere più uomini, sopravvivere ai propri legami spezzati.

 

Sulla strada deserta la città è lontana, un ricordo disturbato come un sogno. Sotto le scarpe crocchia la ghiaia, il ventre vuoto del fiume. La gariga pare infinita, qualsiasi meta irraggiungibile. Camminiamo sbandati, impauriti dai fruscii delle serpi. C’è un camaleonte su un tronco. Gli occhi rugosi, guardiani indipendenti di un confine invisibile.

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Antonio Celano è nato a Castelluccio Inferiore (Pz) nel 1966 e si è laureato in Storia contemporanea alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Pisa. Dopo una lunga esperienza nel campo editoriale a Firenze e dopo aver collaborato alle pagine culturali di quotidiani meridionali e periodici culturali, attualmente è editor free lance. Ha ideato ed è tutor del progetto “FormEd”, corso sui mestieri dell’editoria e curatore della collana “Parole dell’arte” (Sillabe Editore) il cui primo volume è atteso in uscita il prossimo mese. Vive a Livorno.

 

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