La voce del poeta: Ivan Crico
La lingua estinta
Per la sua ultima raccolta, “De Arzènt zù”, ha usato il teregestino che si parlava a Trieste fino ai primi dell'Ottocento. Convinto com’è che «è la scrittura a conferire dignità a un linguaggio e a traghettarlo nel tempo». Una scelta premiata anche con un prestigioso riconoscimento…
Nato a Gorizia, Ivan Crico è un autore che si è espresso sia in lingua sia in dialetto, pubblicando le raccolte Piture (1997), Maitàni (Segnali di mare) (2003) e Segni della Metamorfosi (2007). L’ultima silloge, edita nel 2008 per l’Istituto Giuliano di Storia e Documentazione di Trieste, si intitola De Arzènt zù (D’argento scomparso, 60 pagine, 8 euro). I versi di Crico sono stati apprezzati da critici come Brevini, Tesio, Loi e D’Elia.
Può parlarci della sua ultima raccolta?
L’ultima raccolta pubblicata si intitola De Arzènt zù. Un libro molto particolare perché non è scritto nella mia parlata ma in un idioma estinto, il tergestino, che si parlava a Trieste fino ai primi anni dell’Ottocento. Un libro anomalo, scritto per me soltanto e rimasto per più di dieci anni nel cassetto, ma che poi, misteriosamente, ha raggiunto molte persone, ottenendo il massimo riconoscimento in Italia per un libro di poesia in dialetto, il “Premio Nazionale Biagio Marin”. Nella motivazione il poeta Franco Loi lo descrisse come «una dichiarazione di poetica che viene a confermare due cose: l’essenza dell’arte e del poeta, il suo approfondirsi attraverso i suoni dell’indicibile sostanza della realtà; e la onnivora possibilità di ogni poesia di nominare le forme indipendentemente dalla tradizione e dall’uso della lingua».
Quale dialetto adopera?
In famiglia ancor oggi parliamo solo nel nostro idioma bisiàc. Un “sermo rusticus” arcaico veneto sviluppatosi fin dal tardo Medioevo – su di un precedente sostrato ladino e slavo – nel territorio di Monfalcone, in provincia di Gorizia. Un lascito prezioso della presenza della Serenissima nelle terre “da là da mar”. Pensi che, quando il grande studioso Manlio Cortellazzo mi donò il suo monumentale Vocabolario del veneziano cinquecentesco, mi accorsi con stupore che a casa e nelle mie poesie impiegavo ancora alcune parole, rintracciate in documenti antichi, che, ormai scomparse da secoli a Venezia, egli aveva classificato come «termini di significato sconosciuto».
Ritiene che la poesia sia uno strumento utile a salvaguardare il dialetto di certe minoranze?
Piaccia o non piaccia, è la scrittura a conferire ulteriore dignità a un linguaggio e a traghettarlo nel tempo. Nella società contemporanea, quindi, il lavoro dei poeti che impiegano i loro idiomi locali può avere anche, tra le altre cose, la funzione di ricordare a vecchi e nuovi vocanti la bellezza, da custodire e tramandare, dei loro linguaggi nativi. Senza tutele e normative e studio delle forme scritte (con grande attenzione a quelle poetiche, pensiamo al Pasolini friulano) inoltre, oggi come oggi, probabilmente alcuni linguaggi delle minoranze linguistiche storiche conterebbero un numero di parlanti sicuramente inferiore a quello attuale. Segno che la semplice trasmissione del linguaggio per via orale in famiglia non è più sufficiente. Si tratta di scelte. Anche in natura, senza potature o altri accorgimenti, vi sono alberi che non potrebbero vivere tanto a lungo. La stessa cosa vale anche per le lingue. Inoltre, ancor oggi, nelle scuole la lettura delle poesie dei nostri grandi poeti, da Dante a Montale, è vista come uno dei passaggi obbligati nel programma di lingua italiana; segno che il prestigio di una lingua è ancora inscindibilmente legato al prestigio dei suoi poeti.
Cosa pensa della diffusione della poesia in rete?
Fino a una ventina d’anni fa, quando internet non era ancora così diffuso, ogni pagina pubblicata costava molti soldi, tempo e fatica. Ricordo, nelle riunioni di redazione, le discussioni interminabili per decidere se potevamo permetterci di pubblicare sulle nostre riviste quel giovane o quell’autore ancora inedito, se il suo lavoro avrebbe retto nel tempo, come di fronte a una scommessa in cui si rischia di perdere gli ultimi soldi rimasti, sempre con la paura di prendere abbagli, di vedere nell’amico – per simpatia, eccessiva benevolenza – qualità inesistenti. Oggi non si rischia nulla. O quasi. Nel peggior dei casi ci si ritrova con un post senza commenti. O qualche critica buttata giù alla buona, mentre si gira tra Facebook e qualche sito di news. Certo, senza generalizzare troppo, ci sono in rete blog molto seri mentre anche allora molte cose non andavano per il verso giusto. C’erano – purtroppo – i baroni, gli amici degli amici. Però, quasi sempre comunque, un testo giungeva sulla pagina dopo aver attraversato molte prove.
Arrivate in redazione, le poesie di solito venivano sempre lette da più persone e poi discusse assieme. Nel senso reale del termine: e cioè si prendeva il treno, la macchina, per ritrovarsi a casa di qualcuno. Guardandosi negli occhi. Litigando a volte. Perdendo (la vita è fatta anche di queste cose amarissime) cari amici pur di portare avanti le proprie idee. Poi, non era mica finita, no, perché poteva succedere che le scelte fatte non convincessero l’editore. Per cui di nuovo altro tempo, sempre gratis e con spese di viaggio e vitto a carico, per tentare di giustificare il lavoro presentato. Sia chiaro: non voglio lodare il bel tempo antico. Ogni tempo porta con sé il suo carico di bellezza e orrore. Oggi ci sono in giro ancora molti poeti validi e seri. Sarebbe bello però tornare a prestare di nuovo molta più attenzione a ciò che si pubblica. Promuovere soltanto ciò che si è certi di poter difendere fino all’ultimo respiro. Perché siamo convinti, sinceramente, del valore di quelle poesie, di quell’autore.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
La mia scoperta, appassionante, della poesia contemporanea risale ai tempi delle Medie. Un professore molto preparato di educazione artistica mi diede da leggere una monografia dedicata al surrealismo, un testo che normalmente si legge all’Università, in cui scoprii testi e citazioni di autori come Lorca, Éluard, Artaud, Char. Quest’ultimo è ancor oggi uno dei poeti che amo di più, assieme a Hölderlin, Rilke, Celan. Per me sono stati molto importanti inoltre Donne, Leopardi e Kavafis. Tra gi autori del Novecento italiano sicuramente Ungaretti e Montale, l’ultimo Pavese, Caproni, Penna. Per quanto riguarda i poeti in dialetto direi sicuramente Marin, Pasolini, Scataglini, Loi e Giacomini. Non posso dimenticare inoltre il lungo percorso di riflessioni condivise con l’amico Pierluigi Cappello, con cui abbiamo ideato anche una collana di poesia, “La Barca di Babele”, tesa a promuovere alcuni fra gli autori contemporanei che amavamo di più, da Mario Benedetti adIda Vallerugo.
Cosa sta preparando attualmente?
Con la pittrice Manuela Sedmach e lo scrittore Giovagnoni stiamo elaborando un nuovo progetto, con immagini e testi inediti, di prossima uscita, che contiene un mio lungo poemetto con una pregevole versione inglese a cura del poeta e traduttore Sandro Pecchiari.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Si tratta di una poesia scritta di recente. Come spesso succede, i primi due versi mi sono apparsi già scritti nella mente, nel dormiveglia, pensando alla persona con cui condivido la mia vita da tanti anni, che è sopratutto condivisione di sogni e progetti riguardanti il nostro, e non solo nostro, futuro.
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Pòdar del insunio tóu star arente…
Pòdar del insunio tóu star arente.
Noma che sto culì volarìo par mi.
Cignirlo de cont, ‘nsema, de le alte
ondade de un mondo sensa un cau,
no comodo che ‘l fa l’ànemul
co sotosera al sera le só foie
segur del lusor che i lo xe drìo spetar
cu’la levada de diman. Pòdar star
ta sta banpa che sòlache la inpìa
foghi de imàzini nove e ose
e sesti onde catarse e pèrdarse
par catarse de nou, ‘ncora, sensa fin;
e che no la sa cos che vol dir studarse.
Poter stare vicino al tuo sogno… Poter stare vicino al tuo sogno. / Questo soltanto ora per me vorrei. / Difenderlo, insieme, dalle alte / onde di un mondo senza un perché, / diversamente dall’anemone // che nella sera richiude i petali / sicuro della luce che l’attende / con l’alba di domani. Poter stare / in questa fiamma che solo accende / roghi di nuove immagini e voci // e gesti in cui trovarsi e perdersi / per ritrovarsi ancora, senza fine; / e non sa cosa vuol dire spegnersi.
Ivan Crico
(Si ringrazia per la collaborazione Maurizio Casagrande)