Giuliano Capecelatro
Dopo le bombe in Siria

Due minuti alla fine

A Chicago, il doomsday clock, l'orologio dell'apocalisse che segnala quanto manca all'autodistruzione del mondo, ha ridotto i tempi di sopravvivenza. Siamo a due minuti dalla fine...

Tic tac, tic tac, tic tac… E vai, ragazzi, ci siamo, è fatta! Una manciata di secondi… due minuti appena… anzi, no, adesso anche qualcosa in meno. Urrà! In alto i calici. Chi è il transfuga che si astiene dal brindare alle magnifiche sorti e progressive, come diceva quel tale di Recanati, del genere umano? Due minuti: no, no; meno, meno. Guardate lì che sfolgorio di colori già si delinea all’orizzonte. Pam… bum… sbang! Un trionfo pirotecnico, un’apoteosi clamorosa per l’uomo, meraviglia del creato, che sull’aria lieve e giocosa di un valzer si accinge a celebrare la propria incontenibile potenza con un fragoroso pas d’adieu...

Tic tac, tic tac, tic tac… Inesorabile, il doomsday clock. L’orologio dell’apocalisse, sulle cui lancette grava il compito di indicare quanto manchi alla fine del genere umano. Per il 2018 segna le 23.58: due minuti. Oh, ma i nostri amici stanno profondendo le migliori energie per non deludere le attese. Sentite quei gai scoppiettii? Siria, Yemen, Afghanistan, e mica si fermano lì. Tutto va per il meglio. Due minuti… meno, meno. E la specie umana potrà infine gloriarsi di aver dato scacco ad ogni altra divinità in attività di servizio. Creatore talmente raffinato da riuscire ad annientare se stesso.

Tic tac, tic tac, tic tac… Sono settantun anni che il doomsday clock si incarica di registrare i minuti che precedono la fine. Era il 1947, tempo di guerra fredda, la catastrofe nucleare appariva tutt’altro che un’ipotesi di scuola, o un espediente per racconti fantascientifici. Gli americani, con il pretesto di chiudere una volta per tutte la partita bellica, avevano fornito un piccolo saggio due anni prima, su Hiroshima e Nagasaki: pim, pam, e la seconda ecatombe mondiale era conclusa. Usa e Urss, dopo essersi spartite a guerra vinta quello che si potevano spartire, si guardavano in cagnesco e affilavano i coltelli. Allora nella mente fervida di alcuni scienziati, americani, si fece strada l’idea di quest’orologio terrificante. Orientato verso una fatidica Mezzanotte, l’attimo in cui l’umanità, e non solo essa, finirà gambe all’aria. Il segnatempo dell’apocalisse vide la luce a Chicago, annunciato sulle pagine del Bulletin of atomic scientists della locale università. Eppure, può sembrare paradossale, quelli erano tempi di vacche grasse. La mezzanotte veniva segnalata distante ben sette minuti; c’era di che essere ottimisti.

Va riconosciuto all’umana specie il merito di possedere una fantasia inesauribile nel concepire tutto quanto possa farle del male. Abbarbicata al precetto mentecatto si vis pacem para bellum – del resto coniato da un popolo che aveva individuato nella guerra la propria fondamentale ragione di vita –, non si stanca di andare ogni giorno più avanti nella creazione di armi micidiali. Ma se vuoi costruire una casa, imporrebbe la logica, devi munirti di mattoni, calce, cemento (possibilmente non taroccato, come va di moda in Italia), cazzuole e quant’altro; non certo di bulldozer da demolizione.

Reduci dai fasti guerrieri, i due potenti antagonisti ce la misero tutta per spostare le lancette dell’infernale orologio il più vicino possibile alla mezzanotte. Nel 1949 si raggiunse, grazie ai primi passi nucleari dei sovietici, quota meno tre minuti. E nel 1953 si stabilì il record, eguagliato solo quest’anno, di due minuti. Come dire, ancora qualche passettino e… voilà, il gioco è fatto. Allora erano entrate in scena, infatti, le bombe all’idrogeno. Nelle mani, è chiaro, dei due giganti, che si producevano in simboliche esibizioni di muscoli (interpretazioni psicanalitiche di stretta osservanza indicherebbero qualche altra parte, più riservata, del corpo).

Fatiche tanto improbe impongono delle pause per riprendere fiato. Mica puoi correre i cento metri sempre sotto i dieci secondi. Le lancette si spostarono decisamente da quel meno due. Fino a raggiungere, nel 1963, quota tredici. Ma stavolta, in realtà, l’orologio prese una cantonata. Vero che era appena stato siglato un trattato per stoppare i test nucleari. Ma in quell’anno – e chi se ne può scordare se era almeno adolescente – i due giganti si confrontarono a muso duro dalle parti di Cuba, da poco diventata uno stato socialista: episodio etichettato come la crisi dei missili, preludio da brividi a un imminente scontro nucleare. Però durò pochi giorni, appena tredici, e non diede tempo agli scienziati del Bulletin di adeguare le lancette che, malgrado tutto, rimasero ferme alle 23.47.

Si vive nello scenario de Il dottor Stranamore (ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba), film geniale di Stanley Kubrick, interpretato da un geniale e multiforme Peter Sellers, che riprendeva un romanzo del 1958, Red alert (allarme rosso) di Peter George. Dopo i sudori freddi dell’anno prima, anche se non registrati dall’apocalittico orologio, era lecito farsi una risata rasserenante tra scienziati criptonazisti e generali psicopatici (quanto di più lontano dalla realtà, s’intende).

Scenario in cui era (è) adagiata l’umanità. Senz’altro inquietante: come stare seduti su un barile di polvere in una santabarbara e baloccarsi con una scatola di fiammiferi. Con le lancette che scrupolosamente vanno avanti o indietro ad ogni alito di vento. La guerra del Vietnam le spinse in avanti, di nuovo a sette minuti dalla mezzanotte. Il Salt, cioè la limitazione concordata tra i due giganti degli armamenti strategici, siglata nel 1972, riuscì a tirarla indietro fino a meno dodici.

Sarebbe ingiusto non ricordare che ci sono stati periodi di serenità; relativa, certo. Tra il 1991 e il 1995, le lancette indietreggiarono fino alle 23.46 e alle 23.43. Effetto, al solito, di trattati che lasciavano intravvedere qualche possibilità di un mondo meno soffocato dalle armi; ecco, un limite degli scienziati di Chicago è l’eccessiva fiducia nelle mosse degli statisti, su cui si basano per regolare l’orologio. Ma in fondo, caduto il muro di Berlino, dissoltasi l’Urss, finita la guerra fredda, aveva ancora senso armarsi fino ai denti?

La scimmia assassina, autoproclamatasi homo sapiens sapiens perché non ci fossero dubbi, ha anche un aspetto, di per sé encomiabile, ludens. Ama giocare; il problema è che viene irresistibilmente attratto dall’idea di scherzare col fuoco. Si vede che il rischio nucleare in qualche modo ne stuzzica latenti corde sadomaso. Questo deve aver generato quella specie di Risiko nucleare che è il doomsday clock; che è sì un grido d’allarme, ma in fondo racchiude anche una domanda inespressa: vediamo quando finalmente riusciamo a farci fuori.

L’orologio dell’apocalisse non è a rigor di termini un ordigno scientifico, non possiede neuroni e sinapsi artificiali, non elabora sulla base di implacabili e inappellabili algoritmi; meno che mai, non c’è bisogno di dirlo, possiede poteri paranomali. Non è altro che la proiezione plastica delle nostre ansie e paure, e sotto sotto, ci sarebbe da credere, desideri. Di cui si fanno interpreti gli scienziati di Chicago. I quali, nel tempo, hanno osservato che l’uomo, nella corsa ad annientarsi, non si affida solo alle armi. E da qualche anno hanno cominciato a prendere in considerazioni altri fattori di rischio, primo tra tutti il cambiamento climatico, che i governi continuano ad affrontare con criminale nonchalance.

Ma vuoi mettere con un bell’olocausto nucleare? Tutti insieme appassionatamente. In fondo basta un nonnulla. Una fake news, un equivoco, un ordine dato per sbaglio, un demente cui prudano le dita. L’ufficiale che, alla fine de Il dottor Stranamore, cavalca il missile appena sganciato dal bombardiere, e lo sprona entusiasta col cappellaccio da cowboy, è il simbolo più incisivo e in perfetta sintonia con gli avvenimenti più recenti. Il 2017 si era chiuso sul quadrante del doomsday clock con un meno due minuti e mezzo. Il 2018, che ha ancora otto mesi e passa a disposizione per migliorare, sciorina già un esaltante meno due. Sono le 23.58, ragazzi.

Tic tac, tic tac, tic tac… Afghanistan, Yemen, Siria e chi più ne ha più ne metta. Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς (e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce) – ancora quel tizio di Recanati, con il giudizio dell’evangelista Giovanni ad epigrafe di una corrosiva poesiola sulle sorti dei suoi simili ubriachi di sconfinata potenza. Tic tac, tic tac, tic tac… le 23.58; però. Con tutto quello che sta accadendo, gli scienziati non hanno fatto in tempo ad aggiornare l’orologio, e le lancette potrebbero essersi mosse decisamente in avanti. Ci siamo. Pochi istanti… Urrà, urrà! L’apoteosi… Libiamo, libiamo ne’ lieti ca

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