All’Auditorium Parco della musica di Roma
Il Dylan infinito
Senza chitarra (al pianoforte), un po' crooner un po' rocker, Bob Dylan ammalia ancora una volta in concerto con sonorità tutte nuove. Insomma, letteratura sì o no, un Nobel lo meritava comunque
Quando, a luci spente, la scena si è movimentata e i musicisti sono entrati, l’attesa si è trasformata in brivido. Quando poi quella figura minuta, in giacca di pelle e stivaletti chiari simil-texani, riconoscibile anche al buio, a passi lenti, con breve intercedere si è sistemata al pianoforte per dare inizio all’epifania, a quel punto è montato un applauso che non era un applauso, era un boato, un unico suono, fatto di mani e piedi che battevano per loro propria volontà, un rumore che si è fatto ovattato, avvolgente come panna montata. Tutto il pubblico della Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della musica di Roma, gremita, era consapevole: il Mito stava per manifestarsi e prendeva forma. Signori e signore, ecco a voi Bob Dylan.
Sono andata al secondo dei tre concerti romani del tour Never ending 2018 (l’ultimo è stasera, 5 aprile), tutti esauriti, un po’ dubbiosa, non lo nascondo. Non ho esitato, a novembre, a comprare il biglietto, ma poi la paura della delusione si è fatta strada, anche per la memoria di un concerto di moltissimi anni fa, al Palazzo dello Sport di Roma, in cui le stonature del nostro beniamino furono davvero eccessive anche per un orecchio poco educato. Incoraggiata da pareri e recensioni favorevoli e intimorita da racconti di persone che avevano abbandonato la sala insofferenti e deluse, ho tenuto duro. E ho fatto bene: il concerto è stato bello e sorprendente.
Puntuale come un impiegato, accompagnato da una band di prim’ordine in abito grigio e camicia scura, in un palcoscenico addobbato sobriamente da luci soffuse e da un’immagine sullo sfondo che ricordava i rastremati grattacieli newyorchesi e il ponte di Brooklyn, ha iniziato il suo show. Senza fare nessuna concessione alla nostra nostalgia, senza mai prendere la chitarra in mano, senza compiacere il pubblico né con un saluto, né facendogli accarezzare memorie lontane. Del resto, oltre agli ultrasessantenni e a molti stranieri, c’erano in sala tanti giovani determinati e consapevoli della portata dell’evento. E ai giovani Dylan sa ancora rivolgersi trasformando i suoi evergreen. Così, fondamentali capolavori come Don’t think twice It’s all right, Simple twist of Fate, Desolation row o Blowin’in the wind sono risultati appena riconoscibili, impastati com’erano di sonorità nuove, che ricordavano a volte le parti melodiche della colonna sonora di Pat Garrett e Billy the Kid, firmata da Dylan per il memorabile film diretto da Sam Peckinpah (1973) che lo ha anche vestito dei panni del personaggio Alias.
Chi ha seguito Bob Dylan in questi ultimi anni, attraverso i suoi album da cui ha tratto molti dei brani proposti – Modern Times (2006), Tempest (2012), fino ai più recenti Fallen Angels (2016) e Triplicate (triplo disco del 2017) – ha avuto il tempo di prepararsi allo stile di questi concerti. Fatto anche di rock duro e puro, di melodie ritmiche e ricorrenti, di elementi country e della sua voce roca ora sgranata in tonalità più basse, ora più lirica in brani tagliati su misura per atmosfere avvolgenti in cui dà il meglio di sé come novello crooner.
Di questo nuovo e diverso talento, non più solo folk, Bob ha dato prova nella serata romana, agguantando, a gambe larghe e con fare volitivo, l’asta del microfono come fosse una bella donna in posa di casqué e intonando addirittura Autumn Leaves (Le foglie morte). Convincente, non c’è che dire. E anche al piano sa quello che fa, senza farci troppo rimpiangere le sue doti di chitarrista. Un’ora e mezzo di musica ininterrotta e venti minuti di bis durante i quali il popolo del rock, che fin lì aveva seguito il concerto composto e assai comodamente seduto in poltrone numerate, ha riconquistato la sua natura, non ha resistito, si è alzato in piedi impossessato dal ritmo.
Insomma, con buona pace dei detrattori che gli hanno voltato le spalle a metà concerto imboccando l’uscita, Never ending tour 2018 è la dimostrazione che quella di Bob Dylan è davvero una storia infinita. E un’altra certezza che ho acquisito è che Nobel per la letteratura sì o Nobel per la letteratura no, io sono del partito che un Nobel apposta per lui andava magari inventato: per tutte le emozioni che ci ha dato e che sa ancora darci nel percorso, all’occorrenza lungo, delle nostre esistenze.