Periscopio (globale)
Il bello di Winckelmann
I Musei Capitolini di Roma rendono omaggio a Winckelmann, il genio irrequieto che rilanciò l'estetica classica nel Settecento ponendola al centro del dibattito artistico e filosofico
Restano pochi giorni – per l’esattezza fino al 22 aprile – ai romani che vogliano visitare ai Musei Capitolini la stimolante mostra «Il Tesoro di Antichità. Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento». Inaugurata nel dicembre scorso, la mostra occupa poche sale con una selezione di 124 opere, ma si snoda poi anche, con adeguati riferimenti, lungo tutta la collezione permanente dei Capitolini, mettendo in luce le intuizioni dello studioso e celebrando due anniversari in un sol colpo (il terzo centenario della nascita e i duecentocinquanta anni dalla morte). Winckelmann era infatti nato a Stendal il 9 dicembre 1717, e morì a Trieste, in circostanze drammatiche, l’8 giugno 1768.
Cominciamo proprio da queste ultime. Nel suo Winckelmann und sein Jahrhundert, del 1805, Goethe indicherà fra le qualità di Johann Joachim Winckelmann la capacità di intraprendere sempre il miglior cammino, «salvo per l’ultimo impaziente e sfortunato passo che gli costò la vita»; prova delicata d’eufemia per non menzionare quello che tutti sapevano, e cioè che Winckelmann era morto di morte violenta non tanto, diremmo oggi, per impazienza, quanto per imprudenza, essendosi fidato e forse anche invaghito di un losco figuro che cercò poi di derubarlo. Un analogo rischio doveva averlo già corso in altre occasioni, se nello stesso testo Goethe ricorda l’intimità frequente di Winckelmann con certi schöne Jünglinge (bei ragazzi), che spesso però durava poco. Ancora Goethe, nel ripercorrerne la vita, parla di un’infanzia modesta, di una scolarizzazione insufficiente e poi in gioventù di studi non matti e disperatissimi in senso leopardiano, ma proprio frammentati e distratti. Arrivato a trent’anni, il Nostro era quel che oggi si direbbe un fallito, che continuava a fantasticare di viaggi in paesi lontani, come l’Egitto, senza riuscire ad arrivare nemmeno in Francia. Fino al momento in cui almeno una delle sue fantasie si realizzò: trasferirsi nel luogo del suo destino, Roma.
Quella stessa Roma che oggi lo celebra a ragione come uno dei più illustri dei suoi figli ne pretese all’epoca implicitamente la conversione al cattolicesimo, piccolo sacrificio cui il protestante Winckelmann si risolse senza alcuna recriminazione, ritenendo, con un pizzico di utilitarismo, che quello fosse anzi uno dei presupposti per essere accolto nelle cerchie elette, quelle delle migliori famiglie e dell’aristocrazia vaticana. A Roma vivrà poi da pagano, amico di cardinali, venerato come miglior grecista dell’Urbe, conteso come cicerone dagli stranieri di passaggio, negli ultimi tempi non solo bibliotecario del cardinale Albani, ma altresì prefetto delle antichità di Roma e del Vaticano. Roma è del resto per lui la sintesi di tutta l’antichità, locus incomparabile in cui la presenza dei reperti del passato produce gioia e felicità. Come Wilhelm von Humboldt scrive a Goethe nel 1804, «solo se a Roma continuerà a vigere la divina anarchia, e solo se intorno ad essa la campagna resterà il deserto celestiale che è, rimarrà posto per quelle ombre del passato, una sola delle quali è più importante di tutta l’umanità presente».
La fortuna di Winckelmann si compie da un lato grazie alla familiarità con il cardinale Albani, dall’altro per il coincidere del soggiorno romano con una serie di scavi e ritrovamenti, non ultimi quelli relativi a Ercolano e Pompei, che ne canalizzeranno le inquietudini e ne alimenteranno la volontà di delineare una teoria generale. Visita Paestum, e ne ricava l’impressione che quella sia la nuova frontiera del dorico, «senza contrasto i più antichi monumenti che esistano della greca architettura»; proprio da Paestum, del resto, scaturirà il suo interesse per l’architettura.
Nei Pensieri sull’imitazione dell’arte greca in pittura e scultura, del 1755, Winckelmann esalta i concreti valori plastici della scultura greca, in cui vede rappresentato l’ideale corpo umano in un’insuperabile perfezione, che è poi l’essenza di quello che definisce l’Allgemein-Menschliches (l’umano in senso generale): la sua precettistica grecofila sarà poi alla base dell’arte neoclassica, da Canova a Thorvaldsen, come pure dello stile Impero successivamente diffuso da Napoleone. Winckelmann ammirava i valori plastici nella loro staticità e dava loro un significato morale: a lui si deve l’espressione edle Einfalt und stille Grösse (nobile semplicità e quieta grandezza), insieme di connotazioni in cui riscontrava una fusione di grazia e dignità, d’equilibrio morale e di autodominio; in quel frangente storico, d’altronde, l’Europa aveva davvero bisogno di serenità contemplativa, e di sostanziarla nel mito della serenità greca. Il bello esemplare si purificava così di tutte le scorie del “caratteristico”, raggiungendo l’armonia e la verità. In un certo senso Winckelmann fu anche il primo grande europeo; il classicismo tedesco, in ritardo di un secolo su quello francese, inglese e spagnolo, grazie a lui poté risalire alla sorgente greca, con una più diretta conoscenza delle antichità classiche.
Tornando ai viaggi, malgrado le buone intenzioni e programmi fatti a più riprese, il curioso Winckelmann non riuscirà mai a visitare la Sicilia, così come non si recherà mai in Grecia. Non è ancora chiaro se davvero non poté o piuttosto, in fondo, non volle; sappiamo che un primo progetto risaliva già al 1756, quando era appena arrivato a Roma, e che fino al 1767, un anno prima della morte, continuò ad accarezzare l’idea. Ogni scusa fu tuttavia buona per rimandare, finché la visita a Roma dell’imperatore, del granduca di Toscana e della regina gli consentì di rinviare sine die; per la verità, Winckelmann era piuttosto pusillanime e in ogni caso si sarebbe comunque limitato a fare, accompagnato da un disegnatore, non certo il periplo dell’isola, ma tutt’al più una puntata a Siracusa, per poi passare in Grecia lasciando magari una corposa documentazione odeporica. Fatto sta che, anche senza esserci mai stato, riuscirà a scrivere le Annotazioni sull’architettura degli antichi templi di Girgenti in Sicilia basandosi su una documentazione letteraria e iconografica approssimativa e dimostrando una notevole capacità, al tempo stesso, di rigore e… fantasia.
Del 1762 è la Storia dell’arte nell’antichità, la sua opera principale, punto d’incrocio fra archeologia e filologia in cui esprime un vivo senso della misura, combinandolo con l’istinto e la passione per l’arte. Winckelmann, peraltro, non è mai prescrittivo: non definisce l’essenza della bellezza, ma procede per esempi, lasciandosi andare, qua e là, a qualche effusione poetica. Sotto il profilo del pensiero politico, traccia un costante parallelismo fra l’arte classica e il democratico spirito repubblicano che corrisponde al buon senso; il buon gusto in arte e la libertà politica sarebbero concetti paralleli, tanto che per lui l’arte greca giunge all’apogeo nell’età periclea grazie all’esistenza di libere istituzioni repubblicane, mentre la decadenza dell’arte deriva da quella delle repubbliche; nello stesso ordine di idee, la purificazione stilistica è dunque anche morale. In questo senso esprimerà sempre una malcelata diffidenza non solo per artisti come Piranesi, di cui considera con sufficienza i disegni architettonici, ma anche per certe espressioni figurative di Michelangelo e Borromini, dei quali apprezzava la magnificenza ma la cui episodica eccedenza di ornati gli pareva un segno di cattivo gusto. Nella sua lotta senza mezzi termini contro il Barocco e il Rococò, che esecrava, Winckelmann contribuisce anche alla rivalutazione del Rinascimento; l’arte è per lui anzitutto imitazione d’una bellezza che esisterebbe già nell’anima come idea innata e reminiscenza platonica.
Della sua fine si sa che ai primi di giugno del 1768, in viaggio tra Vienna e Roma, Winckelmann scese all’Osteria Grande di Trieste sotto falso nome – stratagemma le cui motivazioni non sono state ancora perfettamente chiarite – e fu alloggiato dall’albergatore (per caso?) in una stanza al secondo piano, adiacente a quella di tale Francesco Arcangeli, un ex cuoco pistoiese (ma altre fonti lo definiscono più prosaicamente sguattero) pluripregiudicato per furto, bandito dall’Austria e in quel momento, per di più, clandestino. Non sappiamo se Arcangeli corrispondesse all’ideale di bellezza virile classica su cui Winckelmann tanto aveva scritto e teorizzato, fatto sta che tra i due nasce subito un’amicizia che si sostanzia di lunghe passeggiate e intime conversazioni. Sembra che Winckelmann mostri ad Arcangeli delle medaglie d’oro regalategli dall’imperatrice Maria Teresa e che ciò accenda la cupidigia dell’ex cuoco. La sera dell’8 giugno, mentre i due cenano insieme nella stanza di Arcangeli, questi assale lo studioso cercando di strangolarlo e pugnalandolo più volte. Winckelmann morirà dopo un’agonia durata sette ore; quanto al suo assassino, sarà acciuffato dopo una breve fuga, condannato a morte e giustiziato. Ancora oggi, tuttavia, non si può escludere del tutto che, al di là del legame non limpidissimo fra i due, la cause dell’omicidio possano essere ricercate altrove, forse in una storia di spionaggio fra Austria e Vaticano in cui erano entrambi coinvolti. È molto probabile, con buona pace di chi ha tentato interpretazioni di ogni tipo, che non lo sapremo mai. Perché la vita degli studiosi, quando l’avventura la sfiora, è davvero un mistero.