Alla galleria Arti e Pensieri di Roma
Pittura a fior di pelle
Le opere di Bruno Marcucci, settant'anni, allievo di Emilio Vedova, sono segni puri come versi poetici sussurrati a bassa voce, tracce di una sorta di emozione fossile che inchiodano lo sguardo
A fior di pelle. Sì, anche nella pittura la cura della pelle è valore primario di seduzione. Uno spazio, da abitare ed attraversare, strategico per chi realizza un quadro e chi lo osserva. E mai, almeno nella buona pittura, pura cosmesi, perché quel fuori su cui ci si concentra e si richiama l’attenzione diviene via obbligata per approdare al dentro, una pratica alchemica che produce trasmutazioni di percezioni e di senso. Su queste migrazioni, questi transiti dalla superficie all’interno e viceversa si concentra la ricerca creativa di Bruno Marcucci,70 anni, marchigiano residente a Cagli, artista di solida carriera decollata come assistente al fianco di un maestro dell’informale come Emilio Vedova. Un autore poco conosciuto a Roma cui la galleria Arti e pensieri di via Ostilia 3, di fronte al Colosseo, proseguendo nella sua preziosa esplorazione nell’universo emarginato dell’arte fuori moda, dedica una intrigante personale in cartellone fino al 21 aprile, curata da Claudia Terenzy.
In scena un piccolo campionario dei suoi ultimi lavori che documentano con grande efficacia il suo continuo sconfinamento dai territori a due dimensioni della pittura verso la terza dimensione della scultura, enunciato dal doppio titolo della mostra: Iceberg e palinsegni. L’anello di congiunzione è la sperimentazione di un nuovo materiale d’impasto, il silicone, che da circa quattro anni Marcucci ha cominciato a usare come base e collante per i suoi acrilici, dai quali distilla grazie a questa miscela trasparenze, dissolvenze, segni aggiuntivi e volumi. Il punto d’arrivo è in due grandi fogli di carta, che dominano la parete alla destra dell’ingresso: il primo un viraggio di uno squillante rosso fuoco, il secondo che trattiene il respiro di un blu acquoso ed intenso. Al centro della superficie galleggiano come isole dei tratti di colore, stesi preventivamente sul bianco e poi scavati, estratti dalla spatola. Graffi che nel quadro in rosso rimandano vibrazioni più scure, incise come graffi e nell’altro a sfondo blu fanno emergere invece echi di verde e di blu.
Segni puri come versi poetici sussurrati a bassa voce, tracce di una sorta di emozione fossile che inchiodano lo sguardo. Ad accentuarne il controcanto sono le increspature della superficie. Una tensione verso il rilievo che ha generato le opere ribattezzate col suggestivo nome di iceberg. Alcune sono modellate quasi a formulare una sorta di vocabolario dei segni possibili da trasferire a rilievo. Altre invece – e sono le opere più riuscite – nascono da una necessità di trasbordare la rappresentazione dagli effetti tridimensionali del colore mescolato al silicone alle proprietà a tutto tondo della scultura. L’opera più intensa è un riquadro di fondo nero, solcato dalle spinte di un raschietto a rastrello, che improvvisamente si inarca come un fiore bizzarro in una corolla di steli aggettati per poi ricadere verso la base e incidergli sopra una sorta di punta schiacciata e scheggiata. Prendere forma è atto sofferto, doloroso e imperfetto come un parto.
Sulla parete di fronte una serie di piccoli fogli ci raccontano l’avvio della trasformazione generata dall’uso del silicone. All’inizio, separato dal colore, un effetto debole e sfumato che ricorda alla lontana la pelle opaca di un rettile dopo la muta. A suo modo la sfocatura di una prova di stampa. Poi l’uso sempre più consapevole e mirato dell’acrilico sottrae il segno dalla palude nebbiosa del primo stadio e lo trasforma in linguaggio vibrante. Uno specchio di segni incisi, fratture, sovrapposizioni, piani sfalsati. A fior di pelle, certo. Ma che membrana eloquente quella pelle che trasuda il fiato della profondità.