Andrea Carraro
A proposito di "Anni Luce"

Gioventù dissipate

Andrea Pomella, seguendo le ossessioni musicali di Kurt Cobain, ritrae la furia autodistruttiva di un'adolescenza negli anni Novanta: ultima parentesi di disperazione vitale prima di tornare nella mediocrità del mondo adulto

Non è bello da dirsi, ma sono davvero pochi i romanzi che, superato un vaglio superficiale di qualche pagina, si continuano a leggere fino alla fine. Uno di questi ce l’abbiamo per le mani. Si presenta come un libriccino, per via del formato ridotto del volume, dalla copertina strana, invitante, graficamente aggressiva ma raffinata, che rappresenta una zona di Roma che conosco bene, verso lo Scalo San Lorenzo, sotto agli archi alti della sopraelevata, forse all’alba o al tramonto, in una luce opaca, aurorale, fra riquadri di cielo nuvoloso e pilastri di tangenziale, con il titolo del libro – ANNI LUCE – spalmato sul profilo orizzontale scuro del viadotto sopraelevato assieme al nome dell’autore, Andrea Pomella, appena oltre la ringhiera protettiva del parapetto, sul cielo celeste pallido. Di questo romanzo breve-racconto lungo stampato dalla Add editore, collana Incendi, la prima cosa che colpisce è la scrittura brillante, esperta di Pomella nell’assemblare notizie di Storia, grandi eventi di cronaca, con la sua esperienza personale, autobiografica, con l’intenzione di interpretarne il senso meno evidente, come un po’ come fa sul Fatto Quotidiano in tante note che abbiamo avuto la fortuna di leggere negli anni.

La vicenda è calata negli anni Novanta, raccontati nei suoi miti soprattutto musicali, sotto l’insegna nichilista e maledetta del grunge, dei suoi testi angosciosi, la musica rock che andava a quel tempo, il cui caposcuola era Cobain, e la sua icona maledetta e tragica resterà come un marchio di quel decennio, «l’ultima, grande fluttuazione della storia del rock», come scrive l’autore nella breve premessa intitolata significativamente “C’era una volta un mondo”… Numi tutelari di questa avventura, oltre a Cobain e più di Cobain, i Pearl Jam e il suo leader Eddie Vedder, con cui il giovane studente universitario e appassionato di rock, tende a confrontarsi visceralmente, anche per certe simmetrie delle vicende familiari.

Anni Luce racconta in fondo soltanto una breve fugace stagione della vita: l’ultima fiammata di una giovinezza sbandata, libera, anarchica, erratica, irresponsabile, problematica e socialmente dimessa, quella del protagonista, che è ormai un uomo adulto, un 40enne, che sta ripensando per caso, o quasi per caso (per via di un anniversario, di una ricorrenza), a se stesso vent’anni prima, ai suoi 20 anni, quegli anni fondanti della sua vita, come avrà modo di precisare nel racconto, e anche della sua vicenda artistica, più sottintesa che esplicitata. Parliamo di un personaggio, il narratore adulto, del quale Pomella dice opportunamente assai poco, a parte che scrive e continua a occuparsi di musica: «La musica non mi ha salvato dagli oscuri propositi. Non l’arte né la letteratura. Danno consapevolezza, generano dubbi o malesseri temporanei». Si sente chiaramente, nel tono commosso e lirico della sua voce, lungo tutto il racconto, il disincanto, per essere alla fine venuto a patti con la vita, per così dire, entrando nei suoi ingranaggi di famiglia e lavoro tanto disprezzati allora; di aver rinunciato risolutamente anche all’alcol, del quale oggi è un consumatore avaro e occasionale, di essere insomma rientrato nei ranghi.

Ma nella storia che racconta Pomella, non c’è solo lui stesso più giovane, c’è anche Q., con il quale l’autore intesse un dialogo a distanza, al quale in qualche momento si rivolge, e al quale infine appare dedicato il libro. Q. è un amico coetaneo, – diventato anche lui scrittore, tanti anni dopo, ma il fatto non viene approfondito – che allora condivise col narratore alcuni di quei giorni formidabili, mitici, alcuni dei quali in giro per l’Europa, col sacco in spalla, pochissimi soldi, gli spiccioli lanciati dai passanti raccolti nel fodero della chitarra, nei sottopassi del metrò o direttamente per le vie delle città, Arles, Nantes, Parigi, Londra… città di cui sanno il minimo indispensabile, dove si trovano a passare…, spesso ubriachi, fatti di acidi, sempre in giro per raduni e concerti, trascinati da una euforica smania di andare avanti, di continuare il giro, quel giro che sentono essere l’ultimo della giovinezza, che sentono segnare irrevocabilmente il temuto, odiato ingresso nella vita adulta. Preda di truffatori e ladri, i due giovani vagabondi – ennesimi epigoni di Kerouac, citato nel suo ruolo di Super-Mentore – dopo un disastroso incidente, vengono infine alleggeriti anche degli strumenti musicali per guadagnarsi il pane e si trovano costretti a rientrare senza nessuna voglia a Roma e alla solita routine, con l’acuta consapevolezza, dicevamo, che la festa è finita, che il domani sarà comunque l’abisso della mediocrità. Q. è in fondo, ci pare, un ennesimo alter ego del narratore, una sua proiezione più sfrontata e vitalistica nella volontà di autodissipazione e di rivolta (adora andare alle feste e lì coi suoi amici distruggere tutto, ridurle la casa a un unico, indistinto letamaio fangoso) con una furia iconoclasta, distruttiva, oscena, selvaggia, incivile che sembra non risparmiare niente e nessuno – e che è l’altra faccia del cupo sentimento di paranoica estraneità che ispirano certe canzoni di Eddie Vedder: «Vite usate e gettate via/Guarda mamma, guardami precipitare/Non c’è tempo di chiedersi perché niente possa durare/Aggrappati e tieniti forte/Moriremo in fretta/Presto sarà finita e io mi placherò».

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